Metabolizzare la morte di una persona cara richiede tempo e pazienza. Lo sanno bene gli abitanti della regione di Tana Toraja, sull’isola di Sulawesi, Indonesia che, fino a quando non si sentono pronti a separarsi dalla persona amata, conservano la sua salma in casa. Trattandola come se fosse ancora in vita. Un rituale unico nel suo genere fatto di gesti e accorgimenti precisi tramandati di generazione in generazione.
Una tradizione secolare condivisa da 1 milione di abitanti
Per quanto quest’abitudine possa sembrare inquietante e bizzarra, si tratta di una tradizione secolare che accomuna, a oggi, più di 1 milione di persone. Completamente integrati nella quotidianità, i defunti attendono anni prima di avere una degna sepoltura e, nel frattempo, vengono serviti e riveriti come se fossero semplicemente malati. Oltre a lavarli e vestirli regolarmente, infatti, i parenti portano loro cibo, bevande e sigarette e, in un angolo della stanza dove viene riposta la bara, predispongono anche un contenitore per i bisogni fisiologici. Lasciarli incustoditi non è contemplabile: i membri della famiglia si alternano e, durante la notte, le luci rimangono rigorosamente accese. Non si tratta di un capriccio o di un metodo sui generis per digerire il lutto: figli, nipoti e consorti si comportano in questo modo perché temono che, abbandonando il corpo all’incuria del tempo, gli spiriti possano tornare a perseguitare il morto.
Can you sleep with a DEAD BODY for years?
Some people from Tana Toraja in the South Sulawesi of Indonesia spend so many years living with dead bodies pic.twitter.com/Mg9WSxsWWB
— Sniper da Blixky ❁ (@sniperdablixky) May 9, 2021
Tra formalina e connessioni ultraterrene
Evitare che il cadavere si decomponga è una delle priorità. Per ovviare a questa eventualità, in genere, si seguono due metodi: o utilizzare foglie ed erbe profumate da strofinare quasi come un sapone o cospargere i corpi di formaldeide. Dedicarsi con così attenzione alla cura di qualcuno che non c’è più rafforza ulteriormente il legame emotivo con la persona che se ne occupa. Come nel caso di Mamak Lisa che, 12 anni fa, ha perso il padre, Paulo Cirinda. «Averlo qui mi ha aiutato a superare il dolore», ha spiegato in un’intervista alla Bbc. «I nostri cari vengono a trovarlo o capita che mi chiamino per controllarlo. Siamo cristiani ma crediamo fermamente che ci senta e che sia ancora tra noi».
A young man hangs out with his dead grandmother, whose corpse has been removed from her grave. During the ma’nene ritual in Tana Toraja, dead bodies are exhumed to give thanks for a bountiful harvest. See my blog for odd places you can visit https://t.co/z6wztZ7VQh #indonesia pic.twitter.com/BPd3Gd4k3L
— Posts from the Edge (@Postsfromedge) February 19, 2020
Non è soltanto attaccamento emotivo
Posticipare il momento dell’addio, però, non è solo una scelta prettamente emotiva. Durante la loro vita, infatti, gli abitanti di Tana Toraja lavorano duramente per accumulare ricchezza. Non tanto per concedersi una vita agiata, quanto per assicurarsi un funerale imponente. Ecco perché Cirinda rimarrà coi suoi affetti fino a quando non saranno economicamente pronti ad assicurargli una dipartita degna di nota, con una cerimonia sfarzosa, balli, musica e una grande processione attorno al villaggio. L’ultima tappa prima di imbarcarsi nel lungo e difficile viaggio verso Pooya, la meta finale dell’Aldilà, dove l’anima si reincarna. Un passaggio che richiede estrema attenzione nella sepoltura. I torajan, infatti, non vengono tumulati sottoterra ma in tombe di famiglia (soprattutto nel caso di persone benestanti) oppure collocati all’interno e all’esterno delle grotte che costellano il territorio montuoso della zona. Non esistono lapidi, soltanto tau tau: effigi di legno o bambù decorate con abiti, gioielli e persino capelli.

Pulire il corpo per non perdere il contatto con l’aldilà
Tumulare un padre, una moglie o un marito, tuttavia, non significa separarsene una volta per tutte. La relazione coi defunti prosegue attraverso un rituale, noto come ma’nene o pulizia dei corpi che, ogni due anni, prevede la riesumazione e l’apertura del feretro. Sottoposti a un’accurata toeletta e omaggiati con sacrifici animali (soprattutto bufali), doni materiali e preghiere, i morti sono pronti per posare per l’annuale ritratto di famiglia. L’ennesima pratica per alleviare un trauma che fa fatica a rimarginarsi e per non perdere l’interazione con una presenza che è stata fondamentale per chi è rimasto nel mondo dei vivi.
I'm back in Tana Toraja in Indonesia filming amazing death rituals with Bjarke Ahlstrand from oneofmanycameras.
The image of Ditha, who died four years ago, and her parents, cleaning her dead body at a Ma'nene ceremony, is from my trip to the same region in 2017.The Torajans pic.twitter.com/htto6wwPlA
— Klaus Bo (@klausbo_com) August 21, 2018
La convivenza con il cristianesimo
Nonostante la comunità sembri particolarmente attaccata a questa liturgia, la diffusione del cristianesimo e l’incremento delle conversioni ne stanno mettendo a dura prova la sopravvivenza. Negli ultimi anni, infatti, più dell’80 per cento della popolazione ha rinunciato all’Aluk To Dolo, la religione locale animista, per diventare cristiano, lasciando molte di queste pratiche. La realtà dei fatti, tuttavia, non è poi così tragica come suggerirebbero i numeri: le due confessioni sembrano convivere pacificamente. Soprattutto rispetto al culto dei morti che, in questa più che in altre culture, ha implicazioni che vanno ben al di là del semplice discorso spirituale.