Come poteva, Crudelia De Mon, essere così perfida ed egocentrica, da voler scuoiare centouno cuccioli di dalmata per farne pellicce? Se qualcuno se lo chiedeva fin dall’infanzia, ora può trovare la risposta nell’ultima produzione Disney, uscita nelle sale il 26 maggio, per la regia di Craig Gillespie, già autore dell’acclamato Tonya.
Perché Crudelia non è esattamente un live action
Il film scommette su quattro punti. A costumi, scenografia e make-up design, si aggiunge il “fattore Emma” moltiplicato per due, ovvero Stone e Thompson nei ruoli principali. A rigore, Crudelia non può essere considerato un live action, ossia una trasposizione di un cartone animato in un film con attori reali. Nel vorticoso susseguirsi di adattamenti, sceneggiature e format degli ultimi anni, questa, infatti, è una variante particolarmente acrobatica. È il prequel, o la origin story, di un personaggio nato come cartone animato ne La carica dei 101, uscito nel 1961 e rimasto nella memoria di generazioni di bambini nel corso di questi sessant’anni.
Fu proprio il remake di quel film a segnare la svolta, nel 1996, del filone dei live action di casa Disney, con il successo strepitoso della Crudelia interpretata da Glenn Close, che, non a caso, figura ora tra i produttori esecutivi del nuovo film. Come accade in altri remake di cartoon, anche in questo caso la versione live action è più cupa e ambigua rispetto al mood dell’originale.
Tutti i look di crudelia
La vicenda della protagonista è un frullato tra un’infanzia alla Oliver Twist e una giovinezza in stile Il diavolo veste Prada, il tutto immerso nella Londra punk-rock degli Anni ’70. Il filo conduttore visivo più forte, però, è quello della moda, che vede la costumista britannica Jenny Beavan, due volte premio Oscar, superare se stessa, con la creazione di ben quarantasette look originali per Crudelia e trentatré per la Baronessa, il personaggio di Emma Thompson.
Difficile che questi abiti – compreso quello che si elimina per autocombustione – possano interessare davvero ai bambini. Ma risulta sempre più evidente che simili film, ancorché firmati Disney, non siano pensati principalmente per loro. Piuttosto per chi è stato piccolo un tempo, e, attraverso tali pellicole, ripercorre emozioni e ricordi d’infanzia, ricucinati però in forma adulta.
Accade così che la produzione si rivolga a registi visionari come Tim Burton, autore di riferimento per i live action tratti da fiabe e cartoon.
L’origine dei Live action
La trasposizione di generi nasce come esperimento particolarmente sofisticato, basti pensare al Dick Tracy di Warren Beatty (con Madonna nel cast), che provò a riprodurre le geometrie visive, i colori primari e il mood del fumetto omonimo. Il risultato furono tre Oscar (scenografia, trucco e canzone) nel 1991. Il direttore della fotografia, allora, era Vittorio Storaro.
Ancora prima, c’era stato, nel 1980, Popeye di Robert Altman. Robin Williams fu il protagonista di una bizzarra pellicola, a cavallo tra la commedia e il musical, rimasta, pur a suo modo, un classico. Prodotto dalla Disney con la Paramount, il film ebbe anche una discreta risposta, ma evidentemente non all’altezza delle aspettative e perciò passò alla storia come flop.
La Carica dei 101, svolta dei live action
Bisogna arrivare al 1996, con il remake live action de La Carica dei 101, perché la Disney imbrocchi il filone giusto. Il box office, risponderà alla grande, inaugurando una lunga serie di successi. Negli ultimi dieci anni, così, sono stati prodotti Alice in Wonderland, Maleficent, Cenerentola, Il Libro della Giungla, La Bella e la Bestia, Dumbo, Aladdin, Il Re Leone e Mulan. In arrivo, poi, sempre a firma Disney, ci sarebbero La Sirenetta, Peter Pan, Pinocchio, Biancaneve e i Sette Nani e La spada nella roccia. Da Ariel a Semola, i personaggi saranno interpretati da attori in carne e ossa, o, da cani in carne e ossa, come nel caso di Lilli e il vagabondo.
Difficile dire se si tratti solo di una vasta “operazione nostalgia”, ristretta al cinema, che è riuscita a mandare in sala generazioni nate dagli Anni ’50 ai ’90, insieme a figli e nipoti. O se non sia il riflesso di un più ampio fenomeno che investe da tempo l’intera cultura occidentale. Ossia l’incessante rivisitazione e riproposizione di contenuti prodotti nel secolo scorso. Vista in questo modo, il “nuovo” rimarrebbe legato a una tecnologia, che ci fornisce strumenti sempre più sofisticati, ma solo per rivedere ciò che già abbiamo amato in passato.