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Le cause della crisi degli Usa e le difficoltà di Joe Biden

Le midterm si avvicinano e Biden è in affanno. Difficilmente sarà lui, anche per ragioni anagrafiche, ad aiutare gli americani a rialzarsi. Ma non è certo il solo responsabile della crisi sociale ed economica del Paese. Che parte da Clinton, passa per Bush e arriva a Obama. Che ha aperto la strada a Trump. L’analisi..

31 Luglio 2022 17:08 Mario Margiocco
Le cause della crisi degli Usa e le difficoltà di Joe Biden

Oggi sappiamo meglio spiegarci la Russia di quanto riusciamo a capire che cosa è l’America. La Russia è un Paese esteso 57 volte l’Italia, con un Pil pari a quello spagnolo e quindi i tre quarti di quello italiano, dove la grandissima maggioranza ha livelli di vita che pochi europei occidentali accetterebbero, e dove pochi vogliono emigrare. Ma con Vladimir Putin si pone a modello di sovranismo intelligente, e vuole estendere la sua area di influenza su tutta l’Europa, vecchio sogno svanito nel 1946-47, in piena era sovietica, bloccato in primis dagli americani. Procede con bombe e missili sull’Ucraina, facendo tintinnare il suo arsenale atomico e usando con noi l’arma energetica, e giudica l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato come un atto ostile. Nuclearizzano il Baltico, ha detto Putin, tralasciando che è stato lui a farlo, nel 2016, riempiendo l’enclave russa di Kaliningrad di missili a medio raggio e di testate nucleari “piccole”, che sono poi circa tre volte almeno quella di Hiroshima. Tutta la Nato è da sempre, per Mosca, un atto ostile. Manda armi all’Ucraina, invasa dai russi. Ergo, questa la logica russa da sempre libera da impedimenti logici, la guerra in Ucraina è colpa della Nato. Persino il Papa, che viene dall’Argentina e chissà quanto conosce di storia europea, gli ha fatto eco.

Le cause della crisi degli Usa e le difficoltà di Joe Biden
Joe Biden (Getty Images).

Si avvicinano le midterm e Biden è in affanno

Gli Stati Uniti sono un Paese esteso 31 volte l’Italia, un Pil 11 volte quello italiano, sono diventati a partire dal 1915 il perno anche ideologico dell’Occidente, operazione conclusa al termine della Seconda Guerra mondiale con la crisi definitiva del sistema europeo che si impegnarono a risollevare (nel loro interesse, ovviamente, ma anche nel nostro). Come noi gli Stati Uniti subiscono una forte pressione immigratoria, in molti cioè vogliono andare negli Usa. Gli americani guardano al proprio futuro con diffusa insicurezza, e non da oggi. Parlano, discutono, a differenza della Russia dove parla uno solo, e lanciano messaggi di incertezza. Votano, anche. L’8 novembre prossimo vanno alle urne per la consultazione di metà mandato (midterm), che elegge tutta la Camera federale, un terzo del Senato, molte assemblee statali, governatori e cariche locali, e darà la misura dei rapporti di forza. È dagli anni di Obama che nelle assemblee dei 50 Stati dominano i repubblicani. Sono infatti – Donald Trump è l’aberrazione della regola – il partito dell’identità nazionale, e quando è in crisi l’identità è a loro che molti elettori si rivolgono. Per le due camere federali il pronostico resta incerto. Può darsi che il basso tasso di approvazione del presidente Joe Biden – dovuto a inflazione, prezzo della benzina e altro – pesi in modo particolare. In genere nel voto di midterm il partito che ha la Casa Bianca perde seggi, si tratterrà di vedere in che misura. Sarà comunque molto difficile mantenere la risicata maggioranza che i democratici hanno in entrambe le assemblee federali. Alla vigilia degli 80 anni, sulla scena di Washington da mezzo secolo, Biden fatica a dare al Paese ciò che il Paese chiede, cioè un senso di direzione: dove va l’America, e dove deve andare. Non è semplice, perché il Paese è spaccato come raramente lo fu in passato fra valori che noi chiameremmo progressisti e visioni tradizionaliste, tra la cultura storicamente dominante, post europea, e le aspirazioni e le narrazioni delle numerose minoranze. I sondaggi restano incerti e gli ultimi due, usciti martedì 26 luglio, sono divergenti. Quello di Decision Desk vede i repubblicani favoriti al Congresso. Five Thirty Eight, a volte apprezzato in passato per qualche preveggenza, dice invece che i democratici sono messi meno male di quanto sembri, soprattutto al Senato, perché nei rispettivi collegi sarebbero più svantaggiati diversi candidati repubblicani, e perché l’attacco all’agenda liberal portato dalla Corte Suprema lasciata dall’era trumpiana li sta danneggiando.

Le cause della crisi degli Usa e le difficoltà di Joe Biden
Barack Obama, George W.Bush e Bill Clinton (Getty Images).

L’America è spaccata, tra delusioni economiche, inflazione e violenza

Ma è il quadro complessivo, al di là delle dinamiche di voto, che resta labirintico, e non da oggi. Se non fosse così, difficilmente gli Stati Uniti avrebbero avuto in due tornate successive, dal 2008 al 2020, degli scossoni politici con pochi precedenti. Per otto anni il primo presidente afroamericano, giovane e molto progressista, con grandi promesse di cambiare tutto, e subito dopo un anziano bianco decisamente antisistema, iperpopulista e deciso a reinventare, dall’alto della sua stupefacente ignoranza, l’America e oltre, e per questo applaudito da mezzo elettorato. Era la voglia di una soluzione che non è venuta, per vari motivi, da Obama e che non poteva certo venire da Trump. E l’elettorato ha oscillato fortemente tra questi due poli alla ricerca di una risposta. L’America tradizionale, quindi a prevalenza bianca, è turbata dal proprio declino demografico e dalla crescita invece delle altre etnie; su tutti c’è il peso delle delusioni economiche, dell’inflazione e della stagnazione dei redditi, con il potere d’acquisto della maggior parte delle famiglie simile oggi a quello del 1964, secondo il Pew Research Center, anche se in questi sei decenni ha avuto varie oscillazioni, a fronte delle dolci memorie di un potere d’acquisto triplicato fra il 1947 e il 1968. Infine a turbare molti americani è anche la debolezza del tessuto sociale, con l’aumento della violenza, la fuga da città considerate insicure come Chicago o New York, la fine del mito di una California degradata e dai costi impossibili, case e tasse comprese, con 700 mila residenti che l’anno scorso se ne sono andati, l’aumento di depressioni e suicidi. Non sono fenomeni difficili da comprendere per un europeo, poiché in parte analoghi a quanto accade sulla sponda Est dell’Atlantico, dove però un tessuto sociale più esteso e profondo, la mano pubblica e vari altri fattori attenuano (a volte) il disagio. «La sfida esterna non aiuta a superare la crisi interna», ha osservato Ross Douthat, editorialista conservatore del New York Times, ricordando come il moto trasversale di unità a fronte dell’attacco russo in Europa, e della risposta Nato, non abbia trasferito nulla sulle profonde divisioni che travagliano la scena interna. Colpa di Biden? L’attuale presidente difficilmente può essere, per ragioni anagrafiche prima di tutto, l’uomo che aiuta gli americani ad alzare lo sguardo verso un futuro più promettente. Ronald Reagan ci riuscì ma, tra l’altro, quando fu eletto aveva 70 anni e non 78 e all’età in cui Biden entrava alla Casa Bianca Reagan si preparava a lasciarla.

il 23 aprile 2007 moriva Yeltsin: come è cambiata la russia con Putin
Boris Yeltsin e Bill Clinton nel 1995 (Getty Images).

La crisi di oggi va letta a partire dalla presidenza Clinton terminata con i tagli al welfare

Si tratta di una crisi tutt’altro che recente, e per valutarla occorre risalire almeno alla presidenza di Bill Clinton, che per più aspetti fu un successo. Clinton diventò presidente nel 1992 con una campagna progressista ma, vista la pesante sconfitta subita alle midterm del ’94, fiutati meglio gli umori del Paese, fece sue in parte notevole le idee repubblicane sulla riforma del welfare, sua promessa iniziale. Nato federale nel Dew Deal, il welfare state diventava responsabilità dei singoli Stati. Alcuni membri del suo governo si dimisero per protesta al passaggio della legge (PRWORA , Personal Responsibility and Work Opportunity Reconciliation Act), prevedendo pesanti conseguenze.  Clinton aveva firmato infatti il più forte taglio mai subito dallo stato sociale. Così voleva parte notevole dell’elettorato e la rielezione di Clinton pochi mesi dopo, nel ’96, fu un trionfo. Clinton fu presidente in una stagione economica felice e concluse il secondo mandato ai vertici della popolarità. Oltre al welfare e a molto altro, si occupò anche di finanza, dando via libera a molte delle richieste di Wall Street, sua stretta alleata, per la liberalizzazione dei mercati finanziari. La storia patologica dei derivati e dei mutui a go go passa da qui.

Le cause della crisi degli Usa e le difficoltà di Joe Biden
L’ex presidente Usa Barack Obama (Getty Images).

Dalle risposte di Bush al terrorismo alla promessa di Obama

La presidenza di George W. Bush, dominata dai micidiali attentati alle Twin Towers di Manhattan e altrove del settembre 2001 e dalle confuse risposte militari in Iraq Afghanistan e altrove, disorientava il Paese, che premiava prima Bush con i massimi di popolarità nell’autunno 2001 e lo puniva con i minimi a fine mandato, autunno 2008, nel pieno della crisi finanziaria che metteva molte famiglie con le spalle al muro. E per la quale Clinton, ritenuto fra i politici più colpevoli, arrivò a scusarsi in tv. Qui entra in scena Obama, e si comincia a preparare il terreno per quello che sarà otto anni dopo il molto improbabile presidente Trump, totalmente eccentrico rispetto alla tradizione dei presidenti americani. Obama era per natura e storia (avvocato dei diritti civili) il massimo della sinistra al Senato, dove era entrato nel gennaio 2005. Ma coltivò da subito, dall’inizio del 2006 mentre già si preparavano le Presidenziali del 2008, i rapporti con Wall Street, in particolare con Robert Rubin, già al vertice di Goldman Sachs e poi consigliere prima e ministro del Tesoro poi di Bill Clinton. Mentre nella primavera-estate del 2008 si faceva sempre più probabile una conclusione traumatica dell’enorme indebitamento del sistema finanziario, e di molte famiglie (mutui soprattutto), Obama accentuava l’oratoria populista («caccerò i mercanti dal tempio») mentre allargava invece e stringeva sempre più i rapporti con i clintoniani di Wall Street e, una volta ottenuta l’investitura a fine agosto 2008 battendo Hillary Clinton, li metteva nella sua squadra consegnando loro alla fine la guida dell’economia e ignorando molte promesse elettorali a vantaggio della gente comune, che avrebbero inciso però sugli utili delle banche. Bill Clinton aveva cercato di ottenere per la moglie l’appoggio del senatore Ted Kennedy, icona democratica, ricordandogli che «quelli come Obama una volta ci servivano il caffè», battuta infelice che non piacque a Kennedy. E Hillary, candidata democratica contro Trump nel 2016, si toglierà un sassolino ricordando quando si batteva per la nomination contro Bernie Sanders, in un dibattito del 6 marzo 2008 a Flint, Michigan, che Obama aveva «ricevuto nella campagna del 2008 da Wall Street più finanziamenti di qualsiasi altro candidato nella storia presidenziale».  Doveva essere Biden il candidato democratico nel 2016, ma Obama decise di pagare un debito al potente clan dei Clinton al quale aveva soffiato nel 2008 la poltrona presidenziale, e Biden dovette farsi indietro. Trump vinceva nel 2016 per appena 79 mila voti  (in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania) su Hillary, poco simpatica per la maggioranza degli elettori, e chissà, forse Trump avrebbe perso con Biden, non esaltante ma nemmeno antipatico.

Le cause della crisi degli Usa e le difficoltà di Joe Biden
Hillary Clinton e Donald Trump (Getty Images).

Scottati dalla presidenza Obama molti populisti progressisti hanno abbracciato il trumpismo

Scottati da Obama, un numero sufficiente di populisti “progressisti” passavano con Trump e la conferma viene dalle numerose contee e altre simili entità, che hanno votato prima Obama e poi Trump. In particolare, delle quasi 700 che hanno mandato per due volte Obama alla Casa Bianca 209 votavano Trump nel 2016, mentre delle 207 che avevano votato per Obama una sola volta ben 194 si schieravano con Trump, che per quattro anni doveva, con la sua strategia confusa all’insegna della vanità, e una girandola di consiglieri bruciati dal suo ego, aggiungere incertezza a incertezza. Con the Donald non si è chiarita la politica interna, perché la sua Casa Bianca ha rinunciato al ruolo di mediazione fra le varie realtà del Paese, ed è diventata pericolosamente confusa la politica estera, oscillante fra isolazionismo e facile avventurismo, con totale spregio delle alleanze storiche, ritenute un intoppo e non un appoggio, e di tutto quanto sapeva di “vecchio”. La Cina è diventata la sfida, ma anche qui il disprezzo delle alleanze si è dimostrato incosciente.

Le cause della crisi degli Usa e le difficoltà di Joe Biden
Donald Trump (Getty Images).

Al vecchio Biden ora tocca raccogliere i cocci

A un Biden più provato ancora di quelli che sono i suoi anni tocca il ruolo di chi raccoglie i cocci. Da sempre familiare con le questioni europee, allievo ideale della generazione di parlamentari che creò la Nato e spinse per l’Europa di Bruxelles, ha risposto alla sfida russa in Ucraina, che è una sfida all’Europa e al rapporto transatlantico. Per il resto il destino della sua presidenza è appeso a un filo in un Paese dove non è facile trovare al momento voci coraggiose di saggezza. Di conforto resta il fatto che sempre meno Donald Trump sembra in grado di restare ancora a lungo l’ago della bilancia del Partito repubblicano, sotto i colpi dell’inchiesta parlamentare sull’assalto al Campidoglio del gennaio 2021 e per la stanchezza che una figura ipernarcisistica e sregolata alla fine genera.

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