Ucraina: le mosse di Putin dopo il riconoscimento delle repubbliche separatiste
Il riconoscimento delle repubbliche di Lugansk e Donetsk seppellisce gli accordi di Minsk e la pacificazione del Donbass. Putin ora può trattare con gli Usa da una posizione dominante oppure proseguire le operazioni militari. Che però per Mosca avrebbero un costo politico ed economico altissimo.
Il riconoscimento da parte della Russia delle repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk rappresenta una cesura sia nel conflitto nel Donbass, sia in quello allargato che oppone la Russia e l’Occidente.

Con il riconoscimento delle repubbliche di Lugansk e Donetsk gli accordi di Minsk diventano carta straccia
In primo luogo è una svolta che seppellisce il processo di pacificazione nel Sud Est dell’Ucraina, in guerra dal 2014, da quando il governo di Kiev iniziò nel 2014 la cosiddetta Ato, l’operazione antiterroristica per riportare sotto il proprio controllo i territori ribelli filo-russi. Gli accordi di Minsk, i primi firmati nel settembre del 2014, i secondi nel febbraio del 2015, sono diventati carta straccia. Già lo erano, in realtà, perché non sono mai stati rispettati, né dai separatisti né dall’Ucraina. Sono falliti perché in otto anni non si è trovata una soluzione politica, anche a causa di una road map confusa che ha dato la possibilità alle parti in causa di sottrarsi ai propri compiti. Mosca ha usato il Donbass come mezzo di pressione, militare su Kiev dove i due presidenti che si sono succeduti, prima Petro Poroshenko, ora Volodymyr Zelensky, non hanno mai avviato i processi politici necessari per soddisfare gli accordi. In secondo luogo il riconoscimento del Cremlino mette una pietra sopra la possibilità di reintegrazione dei territori attraverso il piano che era stato concordato. E probabilmente per lungo tempo, vista la militarizzazione annunciata da Mosca con l’invio di cosiddette truppe di pace.

Le analogie tra il caso ucraino e quello georgiano
Resta da vedere cosa succederà. Il Donbass occupato diventa di fatto un protettorato russo, come è avvenuto per Ossezia e Abcasia nel 2008 dopo la guerra in Georgia. Il caso ucraino ha molte analogie con quello georgiano. Anche nella sua genesi, dopo mesi di provocazioni tra separatisti e governativi l’allora presidente Mikhail Saakashvili ordinò l’attacco al quale la Russia rispose in maniera dura: i tank russi oltrepassarono la frontiera e si fermarono a Gori, la città natale di Stalin, poco lontano dalla capitale Tbilisi, per poi arretrare al confine delle due repubbliche separatiste. Dal punto di vista militare la Russia avrebbe potuto giungere nella Capitale, rovesciare Saakashvili e occupare la Georgia, piccola repubblica di tre milioni di abitanti. Ora sulla scacchiera ucraina bisognerà capire se il Cremlino si è solo messo in una posizione per dominare il tavolo delle prossime trattative con la Casa Bianca, oppure ha intenzione di proseguire l’azione militare, minacciando Kiev. Entrambe le opzioni sono possibili, ma con un tasso di realismo differente, dato che l’Ucraina non è la Georgia e i costi interni ed esterni, economici e politici, di un’invasione su larga sarebbero probabilmente troppo alti rispetto ai risultati. Quello che è certo è che la diplomazia per adesso ha fallito e non è chiaro se avrà un’altra chance.

Negli ultimi 15 anni Washington ha trattato Putin come Yeltsin
Il bilancio al momento non può essere quindi provvisorio: il riconoscimento di Lugansk e Donetsk è appunto solo un tappa di una crisi che a livello militare è scoppiata nel 2014, ma in realtà ha radici molto profonde e mette di fronte non Russia e Ucraina, ma Russia e Stati Uniti. Quella del Donbass è stata sempre una proxy war, una guerra per procura sul modello dei conflitti della Guerra fredda ed è nata da quello il Cremlino, non con tutti i torti, ha definito un colpo di Stato cioè il cambio di regime a Kiev nel febbraio del 2014. Annessione della Crimea, conflitto nel Donbass e ora indipendenza di Lugasnk e Donetsk sono state per Mosca reazione e conseguenza allo spostamento forzato del baricentro ucraino verso la Nato. Dal discorso di Monaco del 2007, quando Putin avvertì l’Occidente che l’allargamento dell’Alleanza Atlantica ad Est non solo andava contro lo spirito e le promesse (mai tramutate in accordi internazionali) fatte alla Russia all’inizio degli Anni 90 dagli Usa, ma andava contro gli interessi vitali della Russia, sono passati 15 anni senza che nessuno quattro inquilini della Casa Bianca (Bush jr, Obama, Trump e Biden) abbia capito e soprattutto voluto capire che la Russia di Vladimir Putin non è quella di Boris Yeltsin e qualche concessione va fatta. Già nel 2014 Henry Kissinger per il mantenimento della pace in Europa suggeriva di lasciar fuori l’Ucraina dalla Nato. Non a parole, nero su bianco.
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