Delta tra noi

Gianna Milano
15/06/2021

Impennata di contagi e morti in aumento, anche col vaccino. La variante, originariamente conosciuta come indiana, spaventa il Regno Unito, dove è stato posticipato il freedom day che avrebbe segnato la fine restrizioni. Tutto quello che bisogna sapere.

Delta tra noi

Cattive notizie dal Regno Unito, il Paese che ha registrato una delle risposte di maggior successo al Covid19. Nelle ultime settimane c’è stata un’impennata di casi legati alla variante Delta (prima nota come indiana), considerata una delle mutazioni del virus Sars-Cov-2 più contagiose. In una sola settimana i contagi sono quasi raddoppiati, superando quota quarantamila e, nonostante l’imponente campagna vaccinale – oltre 40 milioni di persone hanno ricevuto la prima dose  – 42 persone sono decedute per questa variante. Dodici di loro avevano, addirittura, ricevuto la seconda dose di vaccino. E casi – in Lombardia, Sardegna e Puglia – si iniziano a registrare anche in Italia.

Secondo dati di Public Health England (Phe), agenzia esecutiva del dipartimento della salute inglese, oggi in Gran Bretagna il 90 per cento dei nuovi casi è causato dalla variante Delta, che ha soppiantato l’Alpha (ex variante inglese). La criticità della situazione ha costretto il governo di Boris Johnson a far slittare dal 21 giugno al 19 luglio l’annunciata riapertura del Paese, il freedom day che avrebbe posto fine alle restrizioni.

La campagna di vaccinazione nel Regno Unito

A differenza dell’Unione Europea, il governo britannico ha puntato a ottenere celermente grandi quantità di vaccino, l’Astra-Zeneca, più che a negoziare sul prezzo. Inoltre, i funzionari britannici hanno scelto di massimizzare le prime dosi e ritardare le seconde, con l’idea di ridurre più rapidamente i casi di Covid. Il virus muta nel momento stesso in cui si replica e limitarne la circolazione, vaccinando il maggior numero di persone nel più breve tempo possibile poteva rivelarsi vincente. E in effetti se a fine gennaio i morti in Gran Bretagna erano 1.200 al giorno, il primo giugno erano passati a zero.

Come si spiega, allora, il riemergere dei nuovi casi e la comparsa di una variante, la Delta, più agguerrita di altre? «La scelta degli inglesi di fare una sola dose di vaccino rimandando la seconda, prevista due settimane dopo, ha funzionato dal punto di vista della sanità pubblica: meno decessi e meno ospedalizzazioni», spiega Luca Guidotti, immunologo, virologo e vicedirettore scientifico dell’Irccs ospedale San Raffaele di Milano. «Ma con questa mossa discutibile, contraria alle indicazioni scientifiche, hanno creato un substrato pericoloso. La risposta anticorpale nei vaccinati potrebbe essere infatti non sufficiente a contenere la replicazione virale e il Sars-Cov-2 e troverebbe così lo spazio per sviluppare varianti, bypassando l’immunità subottimale indotta dalla prima dose».

«Per poter sopravvivere il virus deve essere trasmesso, se si impedisce l’infezione non riesce a mutare», continua Guidotti, «Si è calcolato che in un paio di settimane, una sola persona può produrre circa cento milioni di modificazioni del virus con cui inizialmente si era infettata. Per il 99,9 per cento sono inutili, ma ogni tanto ne arriva una che ha un vantaggio selettivo ed evolutivo capace di diffondersi».

Non solo alpha, beta e delta, le varianti sono circa cento

Un centinaio le varianti emerse finora. Tre quelle più note (inglese o alpha, sudafricana o beta, delta o indiana), tutte con mutazioni di proteine virali che includono la spike, proteina che consente al virus di agganciarsi alle cellule e infettarle. Fondamentale, allora, sarebbe dare la caccia alle varianti, monitorarle e sequenziarle per giocare d’anticipo. «Noi oggi conosciamo le varianti emerse prima della pressione selettiva esercitata dai vaccini, ma quali saranno quelle che verranno dopo?», si chiede l’immunologo. «Monitorare e sequenziare sarebbe utile per impostare le future campagne vaccinali. La tecnologia per farlo c’è, non è così complessa e basterebbe avviare la macchina organizzativa nelle strutture che già esistono. In Italia, a differenza di Germania e Gran Bretagna, non si è fatto molto per monitorare le varianti, ma neanche negli Stati Uniti, dove Biden ha ora proposto di investire quasi due miliardi di dollari proprio per questo scopo».

I vaccini sembrano essere efficaci contro la variante Delta, affermano i ricercatori. Proteggono se non altro dai casi gravi e dalle ospedalizzazioni. Resta aperta, tuttavia, la questione sulla durata dell’immunità dopo la malattia o il vaccino. Quale è da ritenersi migliore e quale si conserva più a lungo? Quale protegge di più? Indizi incoraggianti di un recente articolo su Nature suggeriscono una durata dell’immunità di un anno, soprattutto in persone guarite da Covid. E uno studio, di cui dà notizia Scientific American, sul sangue di sopravvissuti a Covid e su persone vaccinate lascia intendere che alcune cellule del sistema immunitario  – che conservano memoria delle infezioni passate – potrebbero avere la capacità di evolvere per combattere le mutazioni del virus.

Cellule in grado di fronteggiare le mutazioni del virus

A sostenerlo è Michel Nussenzweig, immunologo alla Rockfeller University, autore dell’indagine che ha evidenziato il fenomeno. L’idea emergente è che il corpo mantenga nei linfonodi una riserva di cellule che producono anticorpi in aggiunta alle cellule originali che hanno risposto all’invasione iniziale di Sars-Cov-2. Nel tempo alcune cellule di questa riserva muterebbero e produrrebbero anticorpi in grado di riconoscere le nuove versioni virali.

Utile è ricordare che cosa c’è dietro la parola immunità. E quali sono i protagonisti di quell’insieme di cellule altamente specializzate che formano le nostre difese. «Quando viene esposto a un agente patogeno, la prima risposta del sistema immunitario è reclutare globuli bianchi, come macrofagi, neutrofili e cellule NK, per tenere a bada l’intruso», dice Guidotti. «È l’immunità innata che controlla e rallenta il 90 per cento dei patogeni. Dopo l’infezione segue una reazione più mirata su due fronti: è l’immunità adattativa. Il primo fronte prevede la produzione di anticorpi, da parte di cellule note come linfociti B (che maturano nel midollo osseo). L’altro fronte è quello dei linfociti T (che maturano nel timo). Sono i direttori d’orchestra del sistema immunitario che riconoscono e uccidono le cellule infette. Se gli sforzi congiunti di macrofagi, neutrofili, cellule NK, linfociti B e T sono sufficienti, il virus sarà eliminato e il sistema immunitario conserverà memoria dell’invasore, pronto a reagire nel caso si ripresentasse».

Per il morbillo la protezione dura una vita, per l’influenza sei mesi. Quanto dura la memoria verso Sars-Cov-2? Esattamente non si sa. Per Sars e Mers, malattie causate da coronavirus strettamente correlate a Sars-Cov-2, gli anticorpi erano rilevabili nel sangue anche anni dopo l’infezione. Tra le domande a cui i ricercatori devono rispondere c’è l’individuazione del livello di anticorpi utile per essere protetti.

Il concetto di memoria immunitaria

«Irrilevante è il numero di anticorpi. Importante è invece la memoria immunitaria, quella conservata dai linfociti B e T. Ma fare esami su vasta scala per verificarlo non è semplice». Da distinguere c’è anche l’immunità prodotta dal vaccino da quella derivante dalla malattia: «Sono cose diverse. I vaccini utilizzati producono solo la proteina spike, ma il Sars-Cov-2 ne ha 29 di proteine e molte di queste sono altamente immunogeniche», dice Guidotti, «Con la vaccinazione la risposta si limita alla singola proteina, chi ha invece l’infezione naturale possiede un armamentario più agguerrito contro il virus e le varianti. Se in un momento di grande emergenza andava bene il vaccino contro la spike, ora si dovrà pensare a vaccini onnicomprensivi. Il virus inizia solo adesso, che ci sono due miliardi di vaccinati, a subire la pressione selettiva dei vaccini. Le regole del gioco sono cambiate e occorre tenerne conto».

Vaccinazioni in Italia (Getty)

La situazione del Regno Unito possibile anche altrove

«Quello che sta avvenendo nel Regno Unito è molto probabile che si manifesterà presto in altri paesi occidentali», ha scritto John Burn-Murdoch sul Financial Times. Quanto è probabile? «È verosimile. La storia delle infezioni virali ci dice che i virus devono trovare espedienti sempre nuovi per sopravvivere», conclude l’immunologo, «E ormai non ci sono più confini: il Sars-Cov-2 da Wuhan in Cina è arrivato in Europa. Ora è ubiquitario. Siamo una società in movimento. Una terza dose di vaccino avrebbe senso solo se fosse efficace anche verso le nuove varianti. La strategia vincente per sconfiggere il virus sarebbe vaccinare miliardi persone in brevissimo tempo, e noi sappiamo che in alcune zone di Africa e sud-est asiatico i vaccini non sono ancora arrivati».