Filosofia da Pass

Luca Di Carmine
15/12/2021

L'intellò ha sostituito il camallò nei talk. Da Cacciari a Zhok, i filosofi anti certificato verde sono diventati punti di riferimento per chi critica la gestione della pandemia. Ma cosa avrebbero detto su restrizioni, obblighi e lockdown i grandi pensatori del passato?

Filosofia da Pass

Eutanasia legale, lavoro, rabbia sociale, gender gap. Di temi da scandagliare, restringendo la casistica agli ultimi anni, ce ne sarebbero a bizzeffe. Eppure nulla come i vaccini e il Green Pass hanno portato alla ribalta alcuni filosofi nostrani, con Massimo Cacciari e Giorgio Agamben in testa. «Parlasse di filosofia…», ha risposto Pierluigi Bersani ad Andrea Zhok, altro no Pass e professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale a Milano che a Di Martedì snocciolava le sue opinioni circa vaccini, vaccinati e contagi. Il fight club riservato agli intelletti – con filosofi, storici (vedi il polverone sollevato da Barbero), filologi sul ring – ha sostituito il vociare dei terrapiattisti da piazza, dei portuali incazzati di Trieste, di qualche politic* no euro o dei nostalgici del fascismo. E così, nella convinzione di alzare il livello del dibattito, dal camallò si è passati all’intellò. Ma solo per quanto riguarda Covid et similia.

cosa avrebbero detto i filosofi del passato su green pass e lockdown
Giorgio Agamben (Getty Images).

L’appello con cui 100 filosofi e intellettuali prendono le distanze da Agamben

Per un pugno di pensatori “critici” ormai ospiti fissi dei talk, ce ne sono migliaia però che la pensano diversamente. Un centinaio di filosofi e intellettuali italiani, per esempio, lo scorso ottobre ha sottoscritto un documento in cui prende le distanze da Agamben e altri colleghi ricordando come «sebbene la filosofia debba certamente assumere un ruolo critico in relazione alla scienza, questo ruolo critico non può mancare di rispettare i risultati scientifici riportandoli non correttamente. Per esempio è falso sostenere, come ha fatto Agamben nell’audizione di qualche giorno fa al Senato, che i vaccini anti-Covid19 siano in una fase sperimentale: sono stati testati». E, ancora: «È improprio sostenere che ci troviamo in un’epoca in cui l’eccezionalità è diventata la regola, e che l’obbiettivo sia il controllo dello Stato sulla cittadinanza, sul modello di quanto fatto da forme di dispotismo come quello sovietico. Siamo di fronte a un’emergenza sanitaria». A chi paragona l’adozione del Green Pass all’istituzione delle leggi razziali del 1938, i cento ricordano che «tale adozione non induce nessuna discriminazione tra classi di cittadini, avendo come suo scopo semplicemente la protezione della società nel suo complesso, riducendo la possibilità di contagio nell’incentivare le vaccinazioni». E nemmeno la repressione della libertà individuale «essendo una condizione arcinota nelle comunità sociali che la libertà di una persona finisce quando lede la libertà di un’altra o le reca danno».

Ma cosa avrebbero detto in un salotto tv i grandi filosofi del passato circa la pandemia e le restrizioni a cui, per forza di cose, siamo stati sottoposti? France Culture e il magazine svizzero Le Temps hanno provato a rispondere.

i filosofi alle prese con la pandemia
Massimo Cacciari in una foto del 2008 (Getty Images).

Michel Foucault e la biopolitica

Uno dei filosofi più citati dai pensatori critici sul concetto di biopolitica è senza dubbio Michel Foucault. Ciò che scrive ne L’Uso dei Piaceri suona come uno slogan: «Vi sono momenti, nella vita, in cui la questione di sapere se si può pensare e vedere in maniera diversa da quello in cui si pensa e si vede, è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere».  Secondo il filosofo francese, nato a Poitiers nel 1926, la separazione e l’immobilizzazione dei corpi in luoghi determinati, vissuta come sofferenza o, al contrario, con una certa docilità, si gioca anche a livello politico. «Ci sarebbe tutta una storia di spazi da scrivere che sarebbe allo stesso tempo una storia di poteri» (L’occhio del potere, Detti e scritti II). Più volte Foucault si è occupato della reclusione in senso proprio: l’azione di collocare le persone in uno spazio chiuso al fine di mantenerle in uno stato di “sicurezza” o sorveglianza. Nella sua tesi Follia e irragionevolezza: storia della follia in età classica, il filosofo mostra come nel XVII secolo in Occidente si sia cominciato a considerare la follia come una malattia curandola con l’internamento. Mentre nel Medioevo e fino al Rinascimento il pazzo era presente nelle farse popolari o nella letteratura umanistica di Erasmo, la creazione dell’Ospedale Generale di Parigi nel 1656 segnò l’inizio dell’era del «grande confino»: i pazzi, vagabondi e delinquenti iniziano a essere internati e messi al lavoro. In Sorvegliare e Punire (1975), Foucault studia l’adozione di alcune strutture il cui obiettivo è rinchiudere le persone rendendole visibili, al fine di facilitare l’esercizio della sorveglianza. Per descrivere questa «architettura carceraria», si affida al concetto di panoptismo elaborato dal filosofo britannico Jeremy Bentham (1785): rinchiusi in spazi chiusi, i prigionieri sono sottoposti allo sguardo onnipotente di una guardia che non possono vedere.

Foucault e il «sogno politico della peste»

Chi non soddisfa determinati standard – ieri il malato psichiatrico o il delinquente, oggi il no Green Pass o il No Vax (secondo i filosofi critici) – viene così escluso dalla vita sociale. Lo scopo dell’internamento però non era solo punire, ma anche imporre con la coercizione un certo modello di comportamento e accettazione. Foucault stesso mette in correlazione la gestione politica di un’epidemia come la peste e l’instaurazione di un sistema disciplinare che coinvolge la riconfigurazione dello spazio urbano. Per fare ciò si affida alle misure sanitarie e di sicurezza adottate nel XVII secolo in caso di epidemia. Contestualmente al divieto agli abitanti di uscire di casa, viene istituito un confinamento generale che congela lo spazio e consente una sorveglianza generalizzata. Secondo Foucault, esisteva un «sogno politico della peste» che permetteva «la penetrazione della regolamentazione fino ai minimi dettagli dell’esistenza e attraverso una gerarchia completa che assicura il funzionamento capillare del potere».

Green pass e lockdown: filosofi e pandemia
Immanuel Kant (1724 – 1804) (Getty Images).

Vaccini e Green Pass? L’imperativo categorico di Kant

Di tutt’altro avviso – ed epoca – Immanuel Kant. Devo vaccinarmi? Non posso sedermi al tavolo con più di quattro persone? Devo avere il Green Pass per andare a teatro? Cosa è giusto e cosa no? L’illuminista di Königsberg (1724-1804) taglia la testa al toro: il dovere è prima di tutto una forma. E questa forma è quella dell’imperativo categorico, che si oppone agli imperativi ipotetici da seguire se si vuole raggiungere un obiettivo (per esempio ripassare la lezione per una interrogazione). La morale, invece, non ha scopi diversi da se stessa. L’imperativo categorico – un concetto di filosofia morale che enuncia per la prima volta nel 1785 nei suoi Fondamenti della metafisica della morale – non dipende quindi da obiettivi e desideri particolari, si applica a tutti, universalmente. Se ognuno agisce nel modo in cui dovrebbero agire tutti, presto arriveremo a sorprenderci di come possiamo cambiare le cose. Questa è la responsabilità. Il problema è che abbiamo una tendenza naturale e comprensibile all’egoismo e all’auto-conservazione. Solo una società di soggetti disincarnati che ignorano se stessi sarebbe in grado di prendere decisioni completamente disinteressate. Questa è una delle critiche mosse a Kant: la sua moralità è così pura che è impossibile. Lo scrittore cattolico Charles Péguy lo riassume in una frase concisa: «Il kantismo ha mani pure, ma non ha mani». Però è munito di Green Pass.

Pascal e l’infelicità di non saper stare tranquilli in una camera

La pandemia ci ha più volte costretti a isolarci e chiuderci in casa. Su queste misure non avrebbe avuto nulla da ridire per esempio Blaise Pascal. «Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera», scriveva il filosofo e teologo francese del 600 nelle Pensées, opera pubblicata postuma nel 1670. Non che sia una impresa facile, tutt’altro. Per Pascal, infatti, l’uomo è fatto per divertirsi: non si tratta di svagarsi nel tempo libero ma di una vera e propria forma di evasione, come suggerisce del resto l’etimologia latina: divertĕre cioè volgere altrove, deviare, allontanare. «L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è l’intrattenimento, eppure è la più grande delle nostre miserie». Perché ci impedisce di pensare a noi stessi, ai problemi dell’esistenza. L’inazione, lungi dal placarci, ci rivela invece la nostra insufficienza: «Nulla è così insopportabile per l’uomo che essere in pieno riposo, senza passioni, senza affari, senza divertimento». Perché tale è la vera condizione dell’uomo: «Debole», «miserabile» e «mortale» al tempo stesso. Insomma, ci divertiamo per sfuggire alla nostra condizione. La noia potrebbe invece spingerci a riflettere su ciò che siamo, invece di perderci in attività atte a portarci in modo inconsapevole alla morte.

Green pass e lockdown: filosofi e pandemia
Blaise Pascal (1623 – 1662) (Getty Images).

Heidegger, il confinamento e il senso dell’esistenza

Una visione non troppo distante a quella di Martin Heidegger. Per l’esistenzialista, il confinamento non è straziante, tutt’altro. Dalla noia nasce la nostra umanità e con essa rientriamo in contatto con ciò che possiamo essere. Da noi dipende il senso della realtà in cui viviamo. Se la pandemia causa depressione e solitudine, è però anche l’occasione per pensare a grandi cambiamenti. Il turbinio del lavoro, degli incontri, delle attività quotidiane secondo Heidegger impedisce di guardare lucidamente a ciò che possiamo fare. Insomma l’inattività è un’opportunità per cogliere la nostra pienezza d’essere.

Rousseau e la quarantena nel lazzaretto di Genova

Tra i grandi filosofi c’è poi chi la quarantena l’ha dovuta affrontare davvero. Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) nell’agosto del 1743 si imbarcò a Tolone su una feluca per raggiungere Venezia dove era stato chiamato per diventare il segretario del conte di Montaigu, nominato da poco ambasciatore presso la Serenissima. Arrivato a Genova, la sua nave fu costretta a rimanere in porto per un periodo di quarantena decretato per arginare la peste di Messina e Rousseau decise così di trasferirsi in un lazzaretto. «Grandi porte con grosse serrature mi si erano chiuse dietro, e io stavo lì, capace di vagare a mio agio da una stanza all’altra e da un piano all’altro, trovando ovunque la stessa solitudine e la stessa nudità», scrive nelle Confessioni. Come un novello Robinson, tra la caccia ai pidocchi che aveva preso in viaggio, le confezione di un materasso di fortuna con camicie e vestiti, la lettura dei libri che aveva con sé e le passeggiate nel cimitero, il filosofo francese visse quell’esperienza senza particolari drammi. D’altronde «solo non ho mai conosciuto la noia, la mia immaginazione, riempiendo tutti i vuoti, basta da sola ad occuparmi». Va però detto che dopo soli 14 giorni, uscì dal lazzaretto per andare a soggiornare presso l’ambasciatore di Francia a Genova. «Mi sentivo meglio a casa sua che al lazzaretto», ammette sempre nelle Confessioni.

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Schopenhauer e l’obiettivo dell’autosufficienza

In una favola sugli animali raccontata in Parerga e Paralipomena (1851), il teorico dell’esistenzialismo pessimista Arthur Schopenhauer racconta il dilemma dell’istrice durante l’inverno. Quando sono lontani l’uno dall’altro, questi mammiferi sentono freddo; ma quando si avvicinano per scaldarsi, si feriscono a vicenda con gli aculei. La loro esistenza oscilla dunque tra la fredda solitudine e la calda – ma pericolosa – vicinanza. La fiaba spiega bene il nostro paradossale bisogno di società. Ma come dice il pensatore di Danzica: se sentiamo il bisogno di uscire per unirci agli altri è a causa del «vuoto» e della «monotonia» della nostra vita interiore. Schopenhauer invita a mantenere le distanze dagli altri, suggerendo il compromesso delle “buone maniere”. Un modo per sentire (poco) calore ma evitare gli aculei. L’uomo infatti non è fatto per vivere in società più che per sopportare la solitudine. Reclusi e isolati, siamo annoiati: l’esistenza «oscilla, come un pendolo, (…) dalla sofferenza alla noia», sottolinea il filosofo ne Il Mondo come volontà e rappresentazione (1819). «Tutti sanno che alleviamo i mali sostenendoli in comune: tra questi mali, gli uomini sembrano contare la noia, ed è per questo che si raggruppano, per annoiarsi insieme». La libertà è intesa da Schopenhauer come vita autonoma: «Essere sufficiente a se stessi, essere tutto in tutto per sé, (…) questa è certamente la condizione della nostra felicità», scrive nei suoi Aforismi sulla saggezza nella vita (1880).