La Corte Penale Internazionale (Icc) ha chiesto un’indagine completa nei confronti di Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine dal 2016, e della sua guerra alla droga. Sin dall’inizio del suo mandato, e ancora prima nelle vesti di sindaco di Davao, Duterte ha impostato una politica violentissima di contrasto alla criminalità, dando di fatto pieni poteri alla polizia e sdoganando l’uso delle formazioni paramilitari e delle esecuzioni extragiudiziali. Dal canto suo Duterte attraverso il suo portavoce ha risposto che «non collaborerà mai» con l’indagine definita «legalmente sbagliata».
Da anni la Corte tiene sotto osservazione la situazione delle Filippine, dove – secondo i dati del governo – negli ultimi anni sarebbero stati uccise più di 6 mila persone nelle operazioni antidroga. I numeri, però, dovrebbero essere superiori di parecchio: per le organizzazioni internazionale si parla di almeno 20 mila vittime.
Nel 2018, quindi la Icc ha aperto un’inchiesta nei confronti del presidente, accusato di crimini contro l’umanità. In risposta, il Paese ha deciso di lasciare il Tribunale dell’Aia, dichiarando che il sistema giudiziario interno è sufficiente a tutelare i diritti della popolazione. Nel 2019 le Filippine sono diventate la seconda nazione al mondo, dopo il Burundi, a ritirarsi dalla giurisdizione della Corte. La decisione dell’Icc di andare a fondo non è una sorpresa: «È ragionevole pensare che, tra il primo luglio 2016 e il 19 marzo 2019, nelle Filippine siano stati commessi omicidi, crimini contro l’umanità, nell’ambito della campagna di ‘guerra alla droga’ del governo», ha dichiarato la Procuratrice Fatou Bensounda nel richiedere l’autorizzazione per l’indagine completa. La risposta dell’esecutivo è stata abbastanza prevedibile: «Non abbiamo bisogno di giudici stranieri per indagare sulle uccisioni avvenute nella guerra alla droga, perché il sistema giudiziario funziona bene nelle Filippine» ha detto il portavoce di Duterte, che ha definito le indagini «legalmente sbagliate e politicamente motivate».
Duterte, lo sceriffo di Davao
Nei fatti, Duterte è diventato presidente proprio grazie al suo pugno di ferro nei confronti di spacciatori e consumatori di droga. Cresciuto nelle fila del Partito comunista filippino, è stato sindaco di Davao per sette mandati – non consecutivi – ha trasformato una delle città più pericolose del Paese in un teatro per le Squadre della Morte, formazioni paramilitari nate per uccidere trafficanti e tossicodipendenti. Per quanto abbia per anni negato il suo supporto (fino al 2015, quando ha esplicitato i suoi legami con le Squadre), Duterte ha ammesso di aver personalmente ucciso dei criminali da sindaco: «Stavano commettendo dei reati in mia presenza, ho agito in quanto autorità». Sarebbero almeno 1400 le persone assassinate dai vigilantes durante i suoi mandati, secondo un rapporto di Human Rights Watch. «Il sindaco di Davao», si legge in un rapporto delle Nazioni Unite del 2009, «non ha fatto nulla per prevenire queste uccisioni, e i suoi commenti in pubblico ci suggeriscono che egli, di fatto, ne è a sostegno». Duterte era solito annunciare in diretta tivù o radio i nomi di sospettati, alcuni dei quali sono stati poi uccisi entro pochi giorni. Già nel 2002 era quindi balzato agli onori della cronaca internazionale come Il Castigatore (The Punisher), soprannome dato dalla rivista inglese Time. Nel dedicargli un profilo, il magazine sottolineò come Davao fosse «un’oasi di pace nel centro del lussureggiante caos delle Filippine». Già durante i suoi primi mandati (1988-1998) il tasso di crimine nella città era crollato ai minimi storici.
Presidenza di sangue
Nel 2015 Duterte decise quindi di provare la sua carriera su scala nazionale, allontanandosi dagli Stati Uniti in politica estera (per avvicinarsi a Cina e Russia) e puntando tutto sulla sicurezza in politica interna: «L’incarcerazione non è sufficiente a dissuadere i criminali dal commettere altri crimini: bisogna metterli su una barca, magari in cinque, e abbandonarli nel mezzo del Pacifico. I pesci ingrasseranno. Questo vale in particolare per i signori della droga, che continuano le loro attività illecite dietro le sbarre nella prigione di New Bilibid. È meglio lasciarli in mezzo all’Oceano, così gli tocca pescare per il loro cibo», disse in un’intervista durante la sua campagna elettorale. Considerato un outsider, dichiarò che avrebbe ucciso «fino a 100 mila criminali», se eletto alla presidenza: il 30 maggio 2016, con 6,5 milioni di voti in più rispetto agli avversari, diventa Presidente della Repubblica, definendo il suo governo come «sanguinario»: «Se conoscete un drogato, uccidetelo voi stessi», disse nel suo discorso inaugurale. Sin dal principiò il suo esecutivo passò dalle parole ai fatti, attirandosi l’attenzione e la condanna di Ong e Organizzazioni per i diritti umani: «Quando arriverà il momento del raccolto ci saranno più tossicodipendenti che moriranno. Allora vi includerò tra loro (nella lista dei nemici dello Stato, ndr) perché li avete lasciati moltiplicare», fu la sua minaccia nei confronti di queste associazioni. «Se dovete sparare, sparate a morte», disse in un altro discorso pubblico: «Di questo si lamentano quegli idioti dei diritti umani».
Duterte e quello scivolone su Hitler
Definito in maniera impropria «Il Donald Trump asiatico» per il suo populismo spinto, il Presidente ha detto espressamente di avere altri punti di riferimento: «Hitler massacrò tre milioni di ebrei… Ci sono tre milioni di tossicodipendenti nelle Filippine. Sarei felice di massacrarli». Un’affermazione infelice da tutti i punti di vista possibili e immaginabili, e che infatti lo costrinse a correre ai ripari e a chiedere scusa ai milioni di ebrei indignati da quelle parole.
Anticlericale, Duterte ha avuto un rapporto di aperto conflitto anche con i media: «Solo perché sei un giornalista, non significa che tu sia esente dall’essere assassinato. Non c’è alcuna libertà di espressione che tenga, quando fai uno sbaglio a qualcuno. La maggior parte di chi viene ucciso, in realtà, ha fatto qualcosa. Se sei un bravo cronista però, sei al sicuro». Suo obiettivo, quello di mettere a tacere le voci critiche, come dimostra la repressione nei confronti delle testate non omologate: esempio lampante sono gli undici processi in un anno e mezzo iniziati nei confronti della giornalista Maria Ressa, fondatrice del sito Rappler. Fuori dalle Filippine, la reporter è considerata un simbolo della libertà di stampa; nel suo Paese è invece un fastidio. Alla luce di tutto questo, è difficile pensare che la Corte Penale Internazionale possa portare alla luce fatti inediti. Anche perché, come visto, lo stesso Duterte usa quelle uccisioni come vanto, e come il simbolo della sua buona politica.