Quando l’arciera sudcoreana An San è rientrata da Tokyo con tre medaglie d’oro olimpiche al collo, ad accoglierla non c’è stato solo un coro di complimenti e riconoscimenti ma anche una pioggia di critiche durissime. Il motivo è da rintracciare nei capelli corti che in Corea del Sud sono associati alla misandria e una visione distorta del femminismo. Le offese e le minacce che hanno colpito l’atleta, però, hanno spinto migliaia di donne ad aderire a una campagna online per difenderla, postando un selfie per sfoggiare senza vergogna il proprio taglio corto. Ideata da Han Jiyoung e partita dall’hashtag #women_shortcut_campaign, la mobilitazione è l’ultimo passo di un percorso che, da anni, vede le sudocoreane lottare contro forme di discriminazione e misoginia ben radicate e, spesso, incattivite dal web e dai social.
Come nasce l’iniziativa di Han Jiyoung
«Appena ho letto tutti quei commenti misogini su An, mi sono sentita in dovere di fare qualcosa», ha spiegato Jiyoung alla Bbc. «Quelle parole non sono una novità. Anzi, sono abitudine nelle comunità online a prevalenza maschile. Ragazzi, uomini più maturi, talvolta anche donne, si coalizzano in massa per colpire qualcuno che si discosta dal loro modo di pensare. Tutto questo mi ha spinto a mettere in piedi la campagna. Perché, magari, mostrando appoggio alle sportive si può arrivare a risolvere il problema su più fronti». Sono state tantissime le immagini che hanno riempito i social nei giorni successivi al lancio dell’iniziativa e altrettanto numerose le ragazze che hanno dichiarato di aver deciso di cambiare look grazie a esempi come An San.
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Corea del Sud, come nasce l’avversione verso i capelli corti
L’associazione tra l’avere i capelli corti e l’essere femminista affonderebbe le sue radici nel 2018. Secondo Hawton Jung, autore di un saggio sul movimento #MeToo in Corea del Sud, tutto sarebbe nato dalle proteste del movimento Cut the Corset, che avrebbe spinto giovani donne a sfidare gli ideali di bellezza a cui, sin dalla nascita, erano state educate. Rinunciarono così alle chiome fluenti e sfoggiarono visi senza make up. «Da quel momento, i capelli corti sono diventati quasi un manifesto tra le nuove generazioni di femministe», ha spiegato l’autore. «Il loro coraggio, ovviamente, non è stato gradito dagli uomini. Che hanno iniziato ad accusarle di aver offeso la tradizione».
Prima di An San, il bersaglio era l’associazione Megalia
Prima della campagna di solidarietà nei confronti di An San, si era registrato un altro episodio simile. Tutto è partito dal logo di una comunità femminista online, Megalia, interpretato come offensivo nei confronti degli uomini e delle caratteristiche anatomiche del loro organo riproduttivo. Quest’osservazione ha fatto partire una vera e propria caccia alle streghe, che ha costretto brand e aziende a rimuovere pubblicità e slogan che ne replicassero, anche vagamente, il simbolo, per evitare boicottaggi di massa. «Alcuni uomini si sono fissati con l’idea che fosse tutta un’invenzione delle femministe per sminuirli», ha dichiarato la professoressa Judy Han, esperta di studi di genere. Un atteggiamento che, ovviamente, ha soltanto aizzato la rabbia, facilmente dirottata poi anche su An San. «L’arciera rappresenta tutto quello che gli utenti misogini», ha proseguito Han. «Ha i capelli corti. Ha frequentato un college femminile. Ha diffuso messaggi che questa gente ha additato come misandrici senza alcun motivo valido».
Incapacità di accettare il successo femminile
L’hating nasce, secondo la professoressa, dall’incapacità di accettare il successo femminile. «Gli spazi online a prevalenza maschile contribuiscono a diffondere la convinzione secondo cui le vittorie delle ragazze non siano altro che occasioni ingiustamente rubate ai colleghi uomini», ha aggiunto Jung. Sono state diverse, negli anni, le voci che hanno parlato di una discriminazione maschile in ambito accademico e professionale. I fatti e i numeri raccontano ben altro: in Corea del Sud, le donne guadagnano il 63 per cento in meno degli uomini, uno dei gender pay gap più alti al mondo tra gli Stati sviluppati. Ma grazie anche alle proteste, i primi risultati sembrano arrivare: «Tra il 2019 e il 2021, il cambiamento è stato sicuramente palpabile», ha concluso Jung. «Le donne si ribellano e reclamano la propria libertà, anche in cose apparentemente più frivole come il look». La parità passa anche da qui.