Il ciclo mestruale non è una colpa. Meglio ripeterlo visto che nel 2022, ci sono ancora aziende in cui le dipendenti si trascinano a lavorare, in preda al dolore, perché accusate di esagerare se provano a chiedere qualche giorno per rimettersi in sesto. O peggio, superiori che, come la direttrice del Conad Superstore di Pescara finita di recente al centro delle polemiche, continuano a trattarlo come uno stigma per giustificare intimidazioni e veri e propri atti di bullismo. Anacronismi e mancanze di rispetto che potrebbero dileguarsi se solo la misura del congedo mestruale venisse presa seriamente in considerazione e, più che rimanere un’eccezione, potesse diventare ovunque la norma.
In cosa consiste il congedo e qual è la posizione dell’Italia sul tema
A oggi, le società che concedono questo benefit, nel mondo, sono in leggero aumento ma rimangono ancora poche. Eppure la misura che consente alle lavoratrici che soffrono di sintomi mestruali o menopausali acuti di optare per lo smart working o usufruire di qualche giorno di permesso retribuito, esiste da almeno un secolo: l’allora Unione Sovietica lo introdusse nel 1922, il Giappone nel 1947 e l’Indonesia nel 1948. Tuttavia, buona parte delle nazioni del primo mondo, così attente a stare al passo coi tempi, continuano a sottovalutarne l’importanza. Una situazione che si ritrova anche in Italia.
Tutte ste battaglie di civiltà millantate da ogni schieramento e intanto nel 2021 una donna col ciclo deve soffrire in silenzio lavorando come niente fosse(e comprando assorbenti supertassati). #Dismenorrea #congedomestruale
— Mirandolina (@MissTudorCherie) May 17, 2021
Nel 2016, le deputate Romina Mura, Simonetta Rubinato, Daniela Sbrollini e Maria Iacono hanno presentato una proposta di legge in merito, che prevedeva tre giornate di riposo remunerato per le professioniste che avrebbero presentato un certificato in grado di attestare la dismenorrea. Un gesto, ai tempi, visto come pionieristico: se l’iter legislativo non si fosse arenato, saremmo diventati il primo paese occidentale a introdurre il congedo mestruale. Non è andata così: l’iniziativa delle parlamentari è finita nel dimenticatoio e, nonostante le numerose petizioni online, non è stato fatto alcun passo in avanti.
Tutta colpa dello stigma
Mentre società private come la Nike, Coexist e Zomato hanno capito che smettere di sottovalutare il problema e venire incontro alle lavoratrici avrebbe recato loro vantaggi in termini di fatturati, la dimensione pubblica continua a spingere la narrazione che vede le mestruazioni come un tabù. «I dolori variano da persona a persona. C’è chi affronta il ciclo come se fosse una passeggiata e chi, invece, deve fare i conti con un’infinità di effetti collaterali, tra cui crampi insopportabili ed emicrania», ha spiegato in un’intervista alla Bbc Gabrielle Golding, docente della South Australia’s Adelaide Law School, «nonostante soffrano, molte donne si sentono costrette ad anteporre il lavoro al proprio benessere perché la società le porta a pensare al ciclo come a una vergogna. Sentono imbarazzo a parlarne col capo, hanno paura di risultare poco professionali, e per questo tirano la corda, anche in situazioni estreme».
Zomato Introduces 10 Days Of "Period Leave" Breaking Taboo…#MarketingMind #Zomato pic.twitter.com/5QL0ZMm5KM
— Marketing Mind (@MarketingMind_) August 9, 2020
Basta nascondere il malessere per sembrare invincibili
Diventare schiave del mito dell’eroina che non si lascia piegare da nulla, tuttavia, finisce per non avere il risultato sperato. Soprattutto per le aziende che, a causa di questo sacrificio, perdono una media di nove giorni di produttività a persona ogni anno, come confermato dal sondaggio che la Radboud University ha effettuato nel 2019 su un campione di oltre 32 mila donne olandesi, reclamando l’urgenza di normalizzare le mestruazioni come un problema che, al pari di un’influenza, finisce per intaccare la performance della lavoratrice. «Quando mi sono approcciata al mondo del lavoro avevo 20 anni e, tra un’esperienza come barista e un ingaggio come cameriera, mi forzavo di ignorare la sofferenza che, invece, il mio corpo cercava di manifestare in quel periodo del mese», ha raccontato Chloe Caldwell, autrice del libro The Red Zone: A Love Story.

«Ho raggiunto il limite. Poi, sono arrivati gli svenimenti, le sofferenze che mi toglievano il respiro, gli attacchi d’ansia e la diagnosi di una sindrome premestruale severa che mi ha imposto di fermarmi e ricorrere alle cure mediche necessarie. In ogni caso, credo che questo mio atteggiamento, come quello di molte altre ragazze americane, sia dovuto a una cultura fatta di frenesia e stacanovismo. Il congedo mestruale aiuterebbe molte a non rinnegare il malessere e a non sentirsi in difetto se non si è in grado di stringere i denti e partecipare a un meeting come se nulla fosse».
L’esempio virtuoso dell’Australia
Ecco perché reclamarlo non è un capriccio e gli effetti positivi della sua introduzione non sono una leggenda metropolitana. Ne è un esempio l’Australia che, negli ultimi anni, ha deciso di adottare questa politica. In parte per necessità, perché la pandemia ha portato a una grossa contrazione del mercato del lavoro e i business, alla ricerca di soluzioni per tenersi stretti l’organico, lo usano come uno strumento per far sentire le dipendenti comprese e rispettate. In parte, invece, sull’onda del crescente interesse per la salute riproduttiva da parte delle giovani generazioni e, in particolare, del governo che, ad esempio, ha esentato da tasse gli assorbenti a partire da gennaio 2019, consentito alle scuole di distribuirne campioni gratuiti e predisposto un piano di fondi per finanziare trattamenti sull’endometriosi. «Concedendo 10 giorni di permesso pagato al mio staff, ho notato quanto il rapporto tra manager e dipendenti sia migliorato. Le prestazioni ne hanno risentito in positivo e la reputazione del brand ha preso quota», ha dichiarato Kristy Chong, ceo di Modibodi, «venire incontro alle donne sul posto di lavoro le motiva a dare il meglio».

Le critiche degli scettici
Nonostante dati e feedback aziendali parlino chiaro, gli scettici continuano a remare contro la policy. Etichettandola come eccessivamente dispendiosa o inquadrandola come una strategia anti-femminista che rischia di acuire la disparità di genere e alimentare dannosi stereotipi che vedono le donne come incapaci di lavorare con il ciclo o eccessivamente vulnerabili. In realtà, non è così: «A lasciare spazio a tutto questo, infatti, è proprio l’assenza di una regola», ha precisato Golding, «perché se non fosse percepita come un privilegio da conquistarsi con fatica, tutte queste paranoie non esisterebbero».