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Confindustria, con Bonomi il culmine della crisi di rappresentanza

L’OBOLO DI SAN PIETRO. Come mai il governo non interpella Confindustria sul Superbonus? Perché ormai non conta più nulla ed è diventata una vetrina per il presidente di turno. Ora Bonomi spera solo in una poltrona nel giro di nomine delle partecipate. Così l’associazione è sprofondata nell’irrilevanza.

27 Febbraio 2023 12:17 Sebastiano Venier
Confindustria, con Bonomi il culmine della crisi di rappresentanza

Nella vicenda Superbonus «quello che lascia perplessi e preoccupati non è la scelta che viene fatta. Quello che non mi è chiaro e che non mi convince è perché si devono prendere delle decisioni così affrettate gettando nel panico imprese e famiglie e poi convocare le parti. Non era meglio convocarci prima?». Così si esprimeva il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, il 23 febbraio partecipando all’assemblea degli industriali di Savona. E, visto il precedente, ha subito messo le mani avanti di fronte alle intenzioni dell’esecutivo di procedere anche con la riforma degli incentivi alle imprese. «Non vorremmo trovarci nella stessa condizione», ha dichiarato. Sacrosanto dal punto di vista delle relazioni tra governo e parti sociali, ma il presidente della Confindustria si è chiesto il motivo di questo atteggiamento?

Lontani i tempi dei presidenti di prestigio come Agnelli

La risposta è quasi banale. L’associazione ormai è al culmine della sua crisi di rappresentanza, e la politica se ne rende perfettamente conto. È diventata una vetrina per il presidente di turno, ma la sua capacità di incidere si è quasi azzerata. Che fine ha fatto la gloriosa organizzazione degli industriali che in passato ha avuto presidenti come Angelo Costa, Giovanni Agnelli, Guido Carli, Vittorio Merloni e Luigi Lucchini, dotata di un prestigio, di un’autorevolezza e di un blasone che oggi sembrano irripetibili? A che cosa serve oggi Confindustria? Tante domande. Un’unica risposta. A poco niente.

Gianni Agnelli, icona di stile e ultimo re d'Italia
Gianni Agnelli nel 1970. (Getty Images)

Ormai siamo al pubblico che tiene in vita il privato

Oltretutto il sindacato degli imprenditori è diventato terreno di proprietà delle società pubbliche, le grandi partecipate di Stato, che a rigor di logica non dovrebbero avere nessuno peso. Ma si chiude un occhio contando sul fatto che, a differenza di molti soci privati, pagano regolarmente le loro quote, mantenendo così in vita un’associazione in evidente crisi d’identità. Il pubblico che tiene in vita il privato insomma, una evidente quanto comoda abiura ai presupposti per cui era nata l’organizzazione. Tant’è che sono sempre più numerosi gli imprenditori che, pur essendovi iscritti, non partecipano alla vita associativa considerandola un’inutile perdita di tempo, un palcoscenico di cui possono fare tranquillamente a meno.

L’addio di Fca, i guai giudiziari, la crisi del Sole 24 Ore

Sono trascorsi 12 anni dall’addio di Fiat Chrysler, il più importante gruppo privato del Paese, voluto da Sergio Marchionne, e in Viale dell’Astronomia è come se si fosse fermato il mondo. Nel frattempo ci sono stati clamorosi infortuni, come il caso dell’ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, condannato per mafia, che era arrivato a diventare sotto la presidenza di Emma Marcegaglia vicepresidente nazionale con delega alla legalità. E la crisi del Sole 24 Ore, travolto dallo scandalo delle copie digitali inventate per attirare gli inserzionisti, tornato faticosamente sui binari di un giornale di servizio, ma costretto al tempo stesso dare quotidianamente conto di ogni dichiarazione o iniziativa (anche quelle di più scarso rilievo) del suo editore, ossia Bonomi. È lontano il tempo il giornale dettava la linea della politica economica ai governi, in primis perché è difficile capire quale sia l’attuale pensiero di Confindustria verso la politica, se non la continua richiesta di sostegni da parte della mano pubblica.

Sergio Marchionne. (Getty Images)

Bonomi pensa più al suo futuro che a quello dell’associazione

Della crisi di rappresentanza sembra essere consapevole lo stesso Bonomi, che dà l’impressione di pensare più al suo futuro che a quello dell’associazione che guiderà fino al maggio del 2024. Attualmente, oltre alla presidenza di Fiera di Milano e Confindustria, è presidente di Sidam, la società di forniture biomedicali la cui quota di maggioranza nel settembre 2020 è stata acquisita dal fondo Mandarin Capital di Alberto Forchielli. A vendere era stata la Synopo, società a lui riconducibile. Il numero uno di Confindustria è rimasto però socio della Sidam tramite la Marsupium srl. In questa società è il presidente e detiene il 40 per cento del capitale. Gli altri due terzi sono divisi equamente tra due dirigenti della Sidam.

L’imminente tornata di nomine e le mire sull’Enel

Sfumata la candidatura alla presidenza della Lega calcio di Serie A, Bonomi è in cerca una poltrona adeguata alle sue aspettative. La tentazione di entrare nel governo è stata forte. Ma nessuna forza politica della maggioranza l’ha assecondata. Adesso la speranza è tutta nella imminente tornata di nomine, dove ambisce a diventare presidente di qualche partecipata di rango. Di suo, punta a quella dell’Enel. Ma perché Meloni dovrebbe scegliere lui che ha dimostrato di non aver un peso nemmeno nelle vicende di casa sua? Il tentativo di fare di Alessandro Spada, attualmente presidente di Assolombarda, il suo successore a Roma sta miseramente fallendo. Gli stessi imprenditori della Lombardia non scommettono un centesimo su questa possibilità. Un replicante di Bonomi non serve a nessuno. Quindi meglio puntare, per esempio, sul bresciano Paolo Bonometti che un’impresa ce l’ha ed è da sempre politicamente di destra, cosa che gli consente di avere ottimi rapporti con l’attuale governo.

bonomi e le mosse per blindare il dominio in confindustria
Carlo Bonomi. (Getty Images)

Smarrita l’ambizione di incidere nella vita del Paese

Bonomi diventerà presidente della Luiss, come i suoi predecessori. Per alcuni di loro è il finale di carriere cresciute soltanto grazie a frequentazioni e vita d’associazione. Sono i famosi “professionisti di Confindustria”, la definizione con cui Gianni Agnelli bollava chi il successo lo cercava non in una sua attività ma nel gioco di relazioni con cui si scalavano i vertici dell’Associazione. In realtà, Confindustria avrebbe avuto vari modi per fronteggiare una situazione economica così grave e garantirsi il ruolo di interlocutore. Avrebbe potuto tentare di agganciare i nuovi protagonisti della politica italiana, perseguendo con disinvoltura la propria naturale attitudine filogovernativa. O avrebbe potuto ripristinare il suo profilo originale, mettendo gli interessi dell’Italia industriale davanti a quelli dei partiti e dei suoi presidenti, magari per provare a spiegare ai neofiti del governo quali sono i problemi dell’economia reale di un Paese che stenta a ritrovare la via della crescita. Niente di tutto questo è successo. Gli apparati hanno prevalso sugli animal spirits, il basso profilo hanno vinto sulle ambizioni di incidere nella vita del Paese facendo sentire e pesare la voce delle imprese. Basta questo a capire perché il governo, anche sulle scelte che la toccano nel profondo come lo stop al Superbonus, ignori Confindustria.

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