Sembra difficile sostenere che due terzi dei 3,3 milioni di italiani che la mattina di Capodanno hanno seguito su Rai1 il concerto dalla Fenice, dopo avere ascoltato il conclusivo brindisi dal primo atto della Traviata (allegria fallace, com’è ben noto, visto il triste destino della protagonista, ma tant’è) si siano immediatamente catapultati su Rai2 per seguire in differita il concerto di Vienna a base di valzer degli Strauss, seguito a sua volta da 2,2 milioni di spettatori, ansiosi di delibare alla fine l’immancabile Danubio blu e la Marcia di Radetzky solo sulla carta depurata da eccessi di militarismo dalle oscure radici naziste. Un certo numero di super appassionati che hanno seguito entrambe le trasmissioni ci sarà anche stato, ma appare abbastanza evidente (anche alla luce della sostanziale contiguità di orario dei due eventi e della chiara differenza di share – 26,4 contro 17 per cento) che il numero di coloro i quali che in qualche modo hanno ascoltato musica alla tv fra mezzogiorno e le 15.30 del giorno di Capodanno non è lontano dall’iperbolica cifra di quasi 5 milioni di persone.

In Italia la musica colta si ascolta solo a Capodanno (purtroppo)
Le stucchevoli controversie a mezzo social che ormai da qualche tempo si accendono su quale sia il concerto migliore – immancabili anche nei giorni scorsi – dovrebbero tenere conto di questo dato e i soloni da tastiera in servizio permanente effettivo dovrebbero semmai riflettere su un’altra evidenza: è ormai chiaro che gli italiani hanno deciso che il giorno da dedicare alla musica cosiddetta colta è il primo dell’anno, ma evidentemente l’effetto di “trascinamento” da parte di un menù che da molto tempo è sempre lo stesso non esiste. Infatti, negli altri 364 giorni i concerti dedicati a questa stessa musica – in senso lato – raccolgono in televisione ascolti miserandi, con poche eccezioni che confermano la regola. A chi scrive appare abbastanza evidente che la ritualità di questi concerti – che non è in sé un elemento negativo – finisce per prevalere sulla loro capacità di suscitare un genuino interesse in grado di restare vivo anche fuori dalla data cruciale, di diventare quotidianità. Del resto, questi dati di ascolto sono effettivamente straordinari e si capisce che nessuno voglia mettere mano al meccanismo, rischiando di incepparlo.

Vienna e Venezia sono due proposte non comparabili
Già era stata una scommessa, nell’ormai lontano 2004, contrapporre al concerto viennese, da decenni diventato un “must” globale, la manifestazione veneziana. Il che aveva comportato l’alterazione del rito allora esistente, spodestando Vienna dalla diretta e dalla rete ammiraglia dov’era sempre stata. Scommessa vinta, se si giudica ogni cosa solo sulla base degli ascolti, o degli incassi. In realtà, scommessa non ricevibile da nessun teorico allibratore per la diversità delle proposte, che erano e rimangono non comparabili. Artificiosa anche la manovra sui programmi, all’insegna di una dichiarata “tipicità” che in realtà esiste solo nel caso di Vienna. I valzer degli Strauss sono davvero un prodotto musicale a denominazione di origine controllata e garantita, unico al mondo anche se naturalmente oggetto di innumerevoli imitazioni. Impossibile sostenere che sia così anche per le Arie e i Cori operistici che lardellano il concerto veneziano (peraltro bifronte: la parte che non va in tv è sinfonica, e quindi per definizione poco italiana). Certo, l’opera è nata in Italia, e i primi teatri pubblici dove si rappresentava sono stati aperti a Venezia, ma è patrimonio globale da almeno tre secoli e non certo soltanto nella sua “declinazione” italiana. Resta il fatto che il pot-pourri veneziano sarà forse attrattivo per i melomani dei “pezzi favoriti”, ma è lungi dal presentare l’omogeneo fascino dei programmi viennesi, che cambiano continuamente dentro alla genealogia degli Strauss discendenti di Johann padre, ma sono diventati una sorta di simbolo augurale riconosciuto in tutto il mondo.

La pur valorosa orchestra della Fenice è altra cosa dai mitici Wiener Philharmoniker
Poi, sulla qualità musicale si può discutere quanto si vuole, fermo restando che la pur valorosa orchestra della Fenice è altra cosa dai mitici Wiener Philharmoniker. Colpisce che a Venezia il giro dei direttori sia piuttosto ristretto (Chung e Harding sono ovviamente delle garanzie), diversamente dal tourbillon viennese, dove però i nomi dei fuoriclasse si rincorrono. Non sembra da doversi ascrivere a questa categoria Franz Welser-Möst, che ha guidato il concerto di domenica scorsa sbracciandosi fin troppo ma almeno a tempo, senza grande brillantezza né particolare profondità. E chi ha vissuto l’esperienza del concerto diretto in anni ormai lontani da Carlos Kleiber sa di che cosa stiamo parlando. Ma quelli sono eventi epocali. Resta alle cronache il fatto che nella cattolicissima Vienna nessuno ha pensato che bisognasse rendere musicale omaggio a un ex Papa (per di più di nazionalità tedesca) defunto il giorno prima, mentre a Venezia inopinatamente lo si è fatto lanciando un mozartiano Lacrymosa. Imbarazzante conferma di quanto sia aleatoria, in questo Paese, la distinzione fra il sacro e il profano.