Tra il ritrovato amore per il vintage, l’ombra del metaverso e il boom degli NFT, nel 2021 la moda si è ritrovata a incanalare tendenze molto diverse fra loro. Stimoli apparentemente inconciliabili ma che, nelle loro differenze, sono riusciti a trovare un compromesso. Una missione portata a termine grazie soprattutto alle partnership tra i grandi brand dell’haute couture. Collaborazioni del tutto inaspettate, diventate abitudine, che hanno dato vita a collezioni destinate a rimanere nella storia.
Partnership di grandi marchi, tra sperimentazione e business
È il caso di designer di punta come Demna Gvasalia e Alessandro Michele che hanno accettato di lavorare fianco a fianco per sovvertire le regole del gioco e aprirsi alla sperimentazione. Un’abitudine che affonda le sue radici nel passato, quando sodalizi come quello tra Elsa Schiapparelli e Salvador Dalí o Vivienne Westwood e Keith Haring hanno sdoganato la fusione tra le linee dell’arte e quelle della sartoria, dando spazio a una creatività fluida. Ma non è tutto. Al di là della visione più romantica, queste joint venture sembrano avere anche una certa efficacia da un punto di vista strettamente economico. Quando un piccolo marchio viene accostato, anche solo per il lancio di un prodotto, a una griffe d’alta gamma, ne ricava un certo ritorno in termini di visibilità e fatturato. Come successo con le liaison nate tra Richard Malone e Mulberry o Ahluwalia e Ganni. Un discorso che sembra valere anche per il rilancio di imprese, un tempo sulla cresta dell’onda e, da un momento all’altro, uscite di scena e condannate al dimenticatoio. Due esempi su tutti: le aziende di calzature UGG e Crocs che, con le capsule collection realizzate con Balenciaga, Telfar e Molly Gooddard, sono ritornate in pista.
Un trend rilanciato dall’haute couture
I vantaggi delle partnership hanno fatto gola anche ai colossi che, pur non avendo bisogno né di una vetrina né di uno strumento per risollevare con urgenza i propri bilanci, si sono lanciati a occhi chiusi in quest’avventura. Trasformandola in un must have, quasi necessario per definirsi una maison degna di nota. Da Dior e Sacai a Versace e Fendi, fino a Gucci e Balenciaga e Jean Paul Gaultier e Sacai, senza dimenticare Miuccia Prada e Raf Simons e Daniel Lee e Bottega Veneta, l’anno che sta per concludersi ha visto nascere accoppiamenti che hanno stupito e fatto discutere gli addetti ai lavori. «Ero impegnato con il mio team in una riunione di brainstorming nella sede centrale di Fendi a Roma», scriveva su Instagram Kim Jones nel post di presentazione della linea creata con Skims, il marchio di intimo di Kim Kardashian, «All’improvviso, tutte le donne hanno smesso di intervenire e hanno iniziato a fissare lo schermo del telefono. Non capivo cosa stesse succedendo, poi l’ho scoperto: stavano aspettando con ansia i nuovi prodotti di Skims. Ed è lì che ho pensato che sarebbe stato bello fare qualcosa insieme. Ecco come è nato #Skendi».
Ancora più curiosa la genesi dell’unione tra Gucci e Balenciaga che, in occasione dei 100 anni del marchio fiorentino hanno mescolato in chiave ironica i codici tradizionali delle due case di moda, per un tripudio di graffiti, fiori, strass e loghi. «Nel nostro settore le cose sono diventate fin troppo convenzionali», ha spiegato Gvasalia in una puntata del podcast di Balenciaga, «Questo incontro con Gucci è la dimostrazione che gli stilisti possono e devono prendersi meno sul serio per colpire nel segno».
Come sono cominciate le partnership tra grandi marchi
Un capitolo a parte, invece, merita la fusione tra il lusso e lo streetwear. Secondo gli addetti ai lavori, il traino dell’intera macchina delle collaborazioni. Partendo da lanci occasionali, Supreme, Off-White e Vetements hanno costruito veri e propri imperi sul co-branding, con magliette, felpe e sneakers che hanno macinato impensabili record e sold out impensabili. Grazie, soprattutto, alle nuove generazioni, affascinate dall’incontro tra il passato e il presente, tra la strada e la passerella.
Le critiche dei detrattori
L’entusiasmo dei fan e i loro acquisti, tuttavia, non hanno oscurato le sonore bocciature delle voci controcorrente. Che, in quest’affastellarsi quasi compulsivo di partnership, non hanno letto nulla di stimolante. Nessuna traccia di novità o di ribellione al sistema, solo un business vuoto che ripropone modelli visti e stravisti, puntando solo ad ampliare il proprio bacino di utenza. E arrivando, addirittura, a rendere alcuni articoli quasi dozzinali nel tentativo di modernizzarli e collezionare recensioni positive dai veri trendsetter del momento: gli influencer di Instagram e TikTok e gli account (spesso anonimi) che popolano la dimensione parallela dell’High Fashion Twitter, tra recensioni dettagliatissime e critiche al vetriolo. Per questo parterre, operazioni del genere oscurerebbero ingiustamente il genio degli stilisti emergenti, spesso finiti in un angolo per la sola sfortuna di aver presentato il proprio lavoro nello stesso periodo, e annullerebbero il senso ultimo della moda: la ricerca della novità e l’allergia alla ripetizione.