Secondo la Hurun Global Rich List, la Cina ha più miliardari di qualsiasi altra nazione al mondo. La Repubblica popolare è un Paese per ricchi, dunque, ma fino a un certo punto: è infatti anche lo Stato dove i paperoni devono guardarsi maggiormente le spalle. Venerdì 14 aprile Fu Xiaodong, un ex alto funzionario della China Development Bank, è stato condannato a 10 anni di carcere per aver accettato tangenti per 4,3 milioni di renminbi (570 milioni di euro) durante il suo mandato tra il 2007 e il 2020. Alcuni giorni prima Meng Xiao, ex direttore della Corte suprema del popolo – massimo tribunale continentale della Repubblica popolare – si è beccato 12 anni di galera per mazzette: nel giro di un decennio, ha incassato indebitamente 22,74 milioni di renminbi (300 milioni di euro).

Xi vuole stanare i corrotti ai vertici del Partito comunista
Xi Jinping considera la lotta alla corruzione essenziale per la sopravvivenza del Partito comunista cinese e non ha mai fatto mistero di voler sradicare dalle loro poltrone “tigri” (alti funzionari corrotti) e “mosche” (quadri di basso livello). Nel suo primo anno al potere, il 2013, più di 180 mila funzionari sono stati – in varia misura – sanzionati, rispetto ai circa 160 mila dell’anno precedente. Nel decennio successivo, 3,7 milioni di quadri sono stati condannati. Tra essi circa l’1 per cento dei leader nazionali e provinciali. La mano pesante di Xi ha avuto per lui un doppio beneficio: gli ha permesso infatti sia di eliminare potenziali rivali, sia di aumentare il consenso tra i cittadini, che da sempre non vedono di buon occhio l’accumulo di ricchezza da parte dei vertici politici. Secondo un recente studio pubblicato dallo Stone Center on Socio-economic Inequality, nel decennio successivo all’insediamento di Xi, il 91 per cento dei funzionari condannati per corruzione apparteneva all’1 per cento più ricco della popolazione cinese. Se non fosse stato per i guadagni illeciti, solo il 6 per cento sarebbe rientrato in quel segmento d’élite. Ed è proprio qui che si concentra l’attenzione di Xi, in un netto cambio di direzione rispetto al passato.
Politici e imprenditori, mano pesante della Commissione centrale di controllo
I politici cinesi trovano spesso amici nel fiorente mondo degli imprenditori privati e con loro vanno a braccetto. Gli uomini d’affari «prosperano quando i loro sodali scalano le gerarchie e poi cadono insieme a loro», ha detto al Guardian Yuen Yuen Ang, professore alla Johns Hopkins University e autore di un libro sulla corruzione nella politica cinese. Nel 2023 più di 50 figure di spicco delle principali banche e imprese statali sono state indagate o sanzionate dalla Commissione centrale di controllo del Partito comunista. A febbraio l’organismo di vigilanza anti-corruzione della Repubblica popolare ha pubblicato un documento in cui ha condannato «l’elitarismo finanziario». Oltre ai due già citati, altri grandi nomi dell’imprenditoria del Dragone sono stati spazzati via dalle purghe di Xi, molto diffidente riguardo la lealtà dei magnati ai principi del Pcc.
Si stanno moltiplicando i grandi nomi colpiti dalle purghe del presidente
A marzo è finito a processo Zhao Weiguo, magnate dei semiconduttori coinvolto in pratiche di corruzione quando era presidente di Tsinghua Unigroup, leader nella produzione di microchip prima del fallimento nel 2021. Negli ultimi tempi la Commissione centrale di controllo ha anche annunciato indagini su Liu Liange, ex presidente della Bank of China, e Li Xiaopeng, ex presidente del conglomerato finanziario statale China Everbright Group. Bao Fan, fondatore di China Renaissance, banca d’investimento privata specializzata nel settore tech, non viene visto in pubblico da febbraio e, come hanno reso noto le autorità, sta collaborando a non meglio precisate indagini.
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Le autorità cinesi stanno indagando anche nel mondo dello sport
James Palmer, vicedirettore della rivista Foreign Policy ed esperto di affari cinesi, ha evidenziato che negli ultimi mesi i funzionari della Repubblica popolare hanno iniziato a parlare della necessità di una “economia della patata dolce“, termine usato per la prima volta nel 2021 da Xi per descrivere le imprese cinesi che rimangono radicate in Cina e sotto il controllo del Pcc, anche se si espandono per assorbire i “nutrienti” dell’economia globale. Dopo l’avvio nel 2013 della “campagna anti-corruzione” di Xi, le élite cinesi hanno portato via dal Paese enormi somme di denaro. Nel 2014, la Cina aveva circa 4 mila miliardi di euro in riserve estere: in due anni la cifra era scesa di quasi un quarto, ma rimane consistente. L’ultima epurazione di Xi non ha travolto solo finanzieri e imprenditori privati. Il 9 aprile, la Commissione centrale di controllo reso noto di aver avviato indagini su una trentina di imprese statali e l’Amministrazione generale dello sport: diversi dirigenti calcistici sono già stati sentiti.

Xi attacca le “tigri”, ma forse dovrebbe preoccuparsi delle “mosche”
Negli ultimi anni l’attenzione di Xi si è spostata sui ministeri centrali, sul mondo della finanza e della grossa imprenditoria. La rete dell’anti-corruzione sta pescando pesci sempre più grossi: tuttavia, sottolineano gli analisti, dopo più di un decennio di purghe il presidente cinese non è ancora riuscire a sradicare il problema. Ling Li, docente all’Università di Vienna, ha spiegato al Guardian che è la struttura stessa del Pcc a generare corruzione: la mancanza di trasparenza avvantaggia sia i leader autocratici sia i quadri senza scrupoli, ed è questo che succede in Cina. In più, ha aggiunto, «la corruzione avviene in modo molto decentralizzato. Ciò significa che c’è sempre più corruzione di quanta la Commissione di controllo sia in grado di indagare». All’inizio della sua leadership, Xi aveva proceduto perlopiù alla rimozione di funzionari locali e forse proprio in tale direzione dovrebbe tornare a concentrare gli sforzi, suggeriscono gli esperti. Allontanare le tigri fa notizia, ma sono le mosche a dare davvero fastidio.