C’è chi l’ha definita «pandemia ombra» per l’attitudine della società a trattarla come un tabù. E chi, invece, non trova la forza di denunciarla perché abituata a percepirla come parte della vita familiare. Quello della violenza domestica in Cina è ormai diventato un problema sistemico che, nonostante le leggi e le battaglie degli attivisti, continua a tormentare le vittime e a lasciare impuniti i carnefici.
Tang Ping, vittima di violenza domestica e di una società che sottovaluta il problema
Lo sa bene Tang Ping, originaria di Nanning, a sud del Paese, madre di due bambini e sposata con un uomo che, nel 2014, ha iniziato a picchiarla quasi quotidianamente. A ogni schiaffo che riceveva, si sentiva addolorata e impaurita, e quella routine l’aveva convinta a colpevolizzarsi, pensando di meritare quel trattamento per non essere una moglie all’altezza. Fino a quando, cinque anni fa, dopo mesi trascorsi a piangere e a medicare le ferite, non ha trovato il coraggio di correre dalla polizia per denunciare. Forte di una speranza che non credeva più di avere, tuttavia, non ha trovato nelle forze dell’ordine la comprensione di cui aveva bisogno: «Mi hanno detto che quei graffi non erano poi così gravi e, per questo, non avrebbero avuto modo di intervenire», ha raccontato al Guardian, ormai pronta a chiudere il matrimonio e a firmare ufficialmente il divorzio.
China is a horrible country. For women, at least.
The report below contained domestic violence document videos. Too horrible to watch.
Sickening.🤢China is a horrible country for human rights.
WOMEN’S RIGHTS ARE HUMAN RIGHTS 🔥💪 pic.twitter.com/Tu5MUXUbOK
— Karita Mattila (@MattilaKarita) June 13, 2022
Pur esistendo, dal 2016, una legge specifica che punisce maltrattamenti e abusi domestici, in Cina il tema non è ancora entrato nel dibattito pubblico. Al punto che, parlandone poco e, spesso, in termini scorretti, la vittime finiscono per normalizzarlo, chiudendosi nel silenzio. Esattamente come ha fatto Ping prima di provare a trovare una soluzione. «Ci troviamo davanti a un’emergenza grave tanto quanto quella sanitaria innescata dal coronavirus», ha sottolineato, «basti guardare a tutta la violenza sulle donne esposta dai media». Un riferimento esplicito a quanto successo, la scorsa settimana, a Tangshan, dove nove uomini sono stati arrestati per aver aggredito sessualmente un gruppo di ragazze in un ristorante. Notizia che, diventata virale sul web per la diffusione di un filmato, ha riacceso i riflettori sull’urgenza di discutere apertamente del problema, superando l’omertà di una società fortemente patriarcale e focalizzandosi sulla tutela delle donne.
Tangshan attack: Graphic video of group attack on women shakes China to the core | CNN#TriggerWarning #DomesticViolence #GenderViolence https://t.co/fVKKUKnBnL
— Cora Shaw (@craftygal1965) June 13, 2022
I numeri degli abusi
Negli ultimi tempi, la violenza di genere è tristemente balzata agli onori della cronaca in tutto il mondo. Soprattutto con la pandemia che, in base a quanto dichiarato dall’ONU, ha determinato un tragico aumento dei casi. In Cina, nei primi mesi del lockdown nazionale proclamato nel 2020, ad esempio, le denunce da parte di mogli e fidanzate malmenate dai partner hanno subito un deciso incremento e, secondo i dati forniti dalla non profit Blue Sky, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, gli episodi di abusi sono triplicati. Scenario confermato anche da All-China Women’s Federation, l’organizzazione nazionale che si occupa di salvaguardia dei diritti femminili, che di recente ha fornito due dati significativi: a Pechino e dintorni una donna su quattro ha confessato di aver subito molestie e ogni 7,4 secondi una nuova vittima cade nel giogo delle prepotenze dell’uomo che ha sposato o che frequenta.
Se Internet si trasforma nel covo del victim blaming
E mentre nel mondo, le tragiche storie che riempiono i quotidiani hanno spinto gli attivisti a mettere in piedi campagne di sensibilizzazione per smuovere l’opinione pubblica, in Cina la limitazione delle libertà personali e le violazioni dei diritti civili attestate negli ultimi tempi hanno reso le contestazioni complicate. «La gente si indigna per quel che succede e prova empatia per le vittime ma, per cambiare la situazione, è necessario dibattere ad alta voce di violenza di genere», ha ribadito la femminista Lü Pin, «ed è difficile farlo perché, chi si incarica del compito, oggi, finisce nel mirino delle autorità come dissidente e oppositore del governo».

Ma non è tutto. Quello che turba ancor di più le associazioni è il fatto che il ruolo della tecnologia nella società non presti in alcun modo il fianco alle survivor che hanno deciso di mettere alla gogna chi le vessa. Anzi, succede esattamente il contrario. Il cyberspazio cinese, infatti, è costellato di video di aggressioni che, nella sezione commenti, riportano, per la maggior parte, giudizi misogini. È il caso di Xiao Meili che, nel 2021, ha rivelato sui social di essere stata aggredita da un uomo che, alla sua gentile richiesta di smettere di fumare in un locale, le ha versato addosso del liquido bollente. Su Internet, non ha trovato utenti in grado di supportarla e condividere la rabbia, ma un esercito di troll che l’hanno incolpata di essersela cercata, apostrofandola con appellativi poco gentili.
Più controlli e meno spettacolarizzazione della violenza
Davanti a uno scenario del genere, Meili reputa che il grosso della responsabilità spetti alle tech company che, pur millantando protocolli di sicurezza, non fanno abbastanza per limitare la diffusione di certi messaggi. «È assurdo. Weibo, per esempio, è uno dei peggiori complici di questa vergogna», ha tuonato, «più scrivono schifezze, meno li punisce». In realtà, per quanto forse ancora poco incisivi, le autorità stanno iniziando a prendere provvedimenti. Lo scorso mese, ad esempio, un video in cui l’attore Liu Zoucheng tirava pugni e gomitate ha fatto riflettere la community sulla possibilità che, nel 2017, abbia maltrattato con le stesse armi l’ex moglie, al tempo incinta. Il diretto interessato non ha smentito il sospetto e ha risposto alle accuse con l’emoji di un’ascia insanguinata, guadagnandosi l’esilio dai social. Tuttavia, la strada è ancora lunga: dopo i fatti di Tangshan, infatti, i media di stato hanno chiesto a gran voce un limite alla diffusione sconsiderata di post e immagini che sembrano trasformare la violenza in spettacolo solo per un mucchio di like.

«Considerare una cosa così seria intrattenimento è gravissimo e può veicolare un messaggio negativo al pubblico, soprattutto ai minori», si legge su Legal Daily, che invita i singoli, in assenza di regole comuni, a servirsi del buonsenso individuale. E a mettersi nei panni delle vittime come Tang che, dopo un’epopea legale e gli abusi anche di chi, in rete, non le ha creduto, è riuscita finalmente a procedere penalmente contro il marito. «Ho imparato una lezione importante», ha concluso, «mi sono sempre detta di sopportare quel che subivo perché non volevo privare i miei bambini di una famiglia. Era tutto sbagliato. La violenza domestica è una piaga e, dopo la prima volta, ne arriveranno altre, fino a quando, un giorno, non decidi di ribellarti».