La Cina, l’Asia e la trappola economica di Biden
La guerra commerciale tra Usa e Cina unita alle politiche monetarie della Fed stanno affossando le economie asiatiche. E rischiano di spingere i partner di Washington nelle braccia del Dragone. Almeno economicamente. L'analisi.
Prima dell’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, le economie di Stati Uniti e Cina erano fortemente connesse, con tacite e reciproche soddisfazioni. Nonostante fisiologici alti e bassi, da quando nel 1978 Deng Xiaoping aprì il mercato cinese alle influenze esterne, Washington ha trovato, oltre la Muraglia, l’Eden nel quale delocalizzare le proprie aziende per controllare una produzione a costi irrisori. In cambio, i cinesi hanno accumulato fiumi di dollari e prezioso know how industriale. Lo stesso know how, per inciso, dal quale, di lì a qualche decennio, l’ex Impero di Mezzo avrebbe attinto per ingaggiare un duello con gli Usa per il primato dell’economia globale. Nel 2017, poco prima che Trump vincesse le elezioni, gli Stati Uniti importavano dalla Cina merci per un valore di 495 miliardi di dollari. Le tensioni geopolitiche scoppiate tra i due Paesi – dalla pandemia alla questione taiwanese, passando attraverso la più recente guerra in Ucraina – hanno tuttavia gradualmente ridotto questa interdipendenza. Washington ha iniziato a percepire Pechino come una minaccia, pensando, giorno dopo giorno, a come smarcarsi dalla dipendenza cinese. Nel 2020 le importazioni Usa dalla Repubblica Popolare Cinese sono non a caso scese a 438 miliardi, in un progressivo declino che, nel successivo biennio, avrebbe toccato anche i settori chiave dell’economia: la tecnologia e l’hi-tech.

I rischi del decoupling Usa-Cina
Joe Biden sta adesso cercando in tutti i modi di arginare, o almeno limitare, l’ascesa del Dragone facendo leva, in maniera sempre più esplicita, sul decoupling, il disaccoppiamento tra le due maggiori economie del mondo. Il problema principale, per Washington, è che con il passare degli anni Pechino è diventata sempre più parte integrante della globalizzazione. Sabotare il motore diplomatico cinese, così connesso al sistema economico di altre nazioni, non è però facile per almeno due ragioni. La prima: avendo intuito un inasprimento della guerra economica mossa dalla Casa Bianca contro la Cina, il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, ha tracciato un nuovo percorso interno, nel tentativo di rendere i settori strategici del core business cinese quanto più indipendenti possibili da eventuali scossoni esterni (come blocchi o limitazioni alle esportazioni di prodotti chiave, tra cui semiconduttori e altri componenti tecnologici). Durante il XX Congresso del Partito Comunista Cinese, Xi ha evidenziato la necessità, o meglio l’imperativo, di affidarsi allo sviluppo tecnologico come strumento per ottenere un maggiore controllo in ambito hi-tech, limitare gli effetti delle mosse statunitensi e, allo stesso tempo, puntare sulla tecnologia per trasformare la Cina in una potenza digitale autarchica. La seconda ragione chiama in causa i partner degli Stati Uniti. Affinché il piano di isolamento statunitense possa andare in porto, è necessario che gli alleati degli Usa, in primis le nazioni asiatiche, si trovino sulla medesima lunghezza d’onda di Washington. Ma se, almeno dal punto di vista politico, non ci sono troppi dubbi, sul lato economico il discorso cambia radicalmente. L’esempio più lampante di questa contraddizione è incarnato dal Giappone, vittima indiretta del rialzo del dollaro azionato dalla Federal Reserve con l’obiettivo di stabilizzare l’economia degli Stati Uniti. Ma si possono citare anche India, Corea del Sud, Thailandia e Vietnam, tanto per restare nella regione dell’Indo-Pacifico. Ebbene, questi Paesi stanno letteralmente vedendo le rispettive valute colare a picco, in una discesa provocata, almeno in buona parte, proprio dall’aumento dei tassi di interesse decisi dalla Fed per contenere l’instabilità economica degli Usa. In altre parole, la medicina che dovrebbe curare l’economia degli Stati Uniti sta avvelenando le economie dei partner asiatici di Washington. In uno scenario del genere, dal Giappone alla Corea, a nessuno conviene cambiare radicalmente, né tanto meno cancellare, le relazioni economiche con la Cina. Il decoupling da Pechino costerebbe carissimo. E per di più andrebbe ad aggravare un presente alquanto complicato.

Il dilemma dell’Indo-Pacifico
Le nazioni asiatiche dunque si trovano davanti a un bivio: seguire in toto gli Stati Uniti nella battaglia geopolitica contro la Cina, sacrificando i fondamentali rapporti economici con Pechino, oppure smarcarsi, almeno in campo economico, dalla crociata statunitense anticinese per limitare i danni di un rischioso decoupling economico dal Dragone. Prendiamo il Giappone, uno degli attori asiatici più esposti a questo dilemma. Lo yen, la moneta giapponese, continua a deprezzarsi rispetto al dollaro. Tagliare le importazioni dalla Cina, come calcolato dal professor Yasuyuki Todo della Waseda University, costerebbe al Giappone 53 trilioni di yen (353 miliardi di dollari) in perdita di produzione, ovvero circa il 10 per cento del suo Pil annuo. Detto altrimenti, e ragionando in termini generali, l’adozione di un’eventuale politica economica “zero Cina” devasterebbe l’economia asiatica. Senza più poter contare sui materiali importati da oltre la Muraglia, la produzione di elettronica al consumo, di automobili, abbigliamento e altri articoli rischierebbe di fermarsi nel giro di appena pochi mesi. Certo, i governi asiatici potrebbero cambiare fornitore e salutare la Cina. Ma sostituire Pechino è arduo. Giusto per fare un esempio, e citando le stime della società di consulenza Owls relative al Giappone, Tokyo dovrebbe fronteggiare un aumento del 50 per cento del prezzo di un personal computer e un aumento del 20 per cento del prezzo di uno smartphone.

Biden rischia l’effetto boomerang
Le mosse finanziarie statunitensi poi potrebbero rivelarsi un boomerang. Con l’aumento dei tassi della Fed e la caduta delle valute asiatiche, i Paesi dell’Indo-Pacifico avranno sempre meno interesse ad allontanarsi dalla Cina. Anzi, visto il cambio sfavorevole col dollari, saranno spinti a incrementare il commercio con Pechino, così da arginare i rispettivi rallentamenti economici. In altre parole più Washington fa leva sul rialzo del dollaro e più gli alleati asiatici potrebbero rafforzare i legami economici con il Dragone. C’è poi da soppesare il costo di un ipotetico decoupling delle suddette nazioni dalla Repubblica Popolare Cinese. Se è vero che le loro alleanze strategiche e militari con gli Stati Uniti sono più forti che mai, è altrettanto vero che un ipotetico decoupling con la Cina provocherebbe conseguenze economiche disastrose. Persino per l’India, acerrima rivale geopolitica cinese ma profondamente interconnessa con il Dragone. Pechino è infatti il partner commerciale numero uno. Nel 2021, al netto di scintille politiche crescenti, il volume degli scambi tra i due giganti dell’Asia ha toccato quota 125,66 miliardi di dollari, facendo segnare un +43 per cento rispetto all’anno precedente. Eppure l’India (così come il Giappone e l’Australia), fa parte del Quad ( Quadrilateral Security Dialogue) l’alleanza strategica informale che vede coinvolto il governo indiano dalla stessa parte degli Stati Uniti. Al momento, insomma, la politica economica di Biden in chiave anticinese presenta più luci che ombre. Si concentra sul taglio delle esportazioni hi-tech dirette verso Pechino ma, come detto, non tutti sono in grado, né hanno una convenienza economica nel seguire il tragitto proposto da Washington. Tanto più se la Fed continua, indirettamente, ad affossare le valute asiatiche. E cioè le valute di quegli stessi Paesi che dovrebbero aiutare la Casa Bianca a contenere il Dragone.