A un’azione corrisponde sempre una reazione. Se alcuni brand occidentali, sotto la pressione dell’opinione pubblica, hanno deciso di dire basta al cotone proveniente da aziende cinesi accusate di sfruttare il lavoro forzato degli uiguri nello Xinjiang, Pechino è passata al contrattacco. E ha accusato una serie di marchi – tra cui H&M, Zara e Nike – di vendere in Cina abiti per bambini scadenti e addirittura pericolosi per la salute. Come scrive il South China Morning Post, l’Amministrazione generale delle dogane cinese ha elencato sul suo sito ben 81 lotti di indumenti e prodotti per bambini trovati fuori norma nei test eseguiti da giugno 2020 a maggio 2021. Non sono solo vestiti, ci sono anche giocattoli, spazzolini, scarpe e biberon. L’avviso, che con un’abile mossa propagandistica è stato diffuso martedì primo giugno in occasione della Giornata dei bambini nazionale, esorta i clienti cinesi a prestare attenzione negli acquisti ed è stato l’ultimo colpo inferto da Pechino ai marchi stranieri già sottoposti nel Paese a boicottaggi commerciali.
Il boicottaggio dei marchi occidentali da parte dei cinesi
Naturalmente l’avviso dell’amministrazione delle dogane è stato accolto con grande entusiasmo sui social locali dove si sono moltiplicati gli appelli per acquistare solo prodotti made in China di marchi come Li-Ning e Anta (gli stessi che il congresso Usa ha messo nel mirino chiedendo alle star della Nba di rompere le sponsorizzazioni proprio per la questione uigura). Il risultato è che i prodotti H&M sono scomparsi dai principali siti di e-commerce cinesi come JD.com, Taobao e Pinduoduo, mentre i vip del Dragone hanno sospeso ogni tipo di sponsorizzazione con il marchio svedese. Dopo il contraccolpo iniziale, il 13 maggio H&M ha chiuso uno dei suoi store monomarca a Shanghai. Poco prima Inditex, casa madre della spagnola Zara, aveva annunciato che avrebbe chiuso i negozi Bershka, Pull&Bear e Stradivarius nell’ex Celeste Impero. Gap invece starebbe pensando di vendere parte della sua attività a cinesi. Non è la prima volta che H&M e Zara finiscono nel mirino per questioni legate alla sicurezza degli indumenti importati. Era accaduto già il 30 maggio 2020. È invece la prima volta che nella lista nera di Pechino finiscono marchi come Nike, GU e GAP.

La Cina spinge per sostenere la produzione locale
Al di là della propaganda, la guerra della maglietta ha una spiegazione ben più prosaica. Basta guardare alcuni numeri. Le esportazioni tessili lo scorso aprile sono state pari a 12,15 miliardi di dollari, registrando un calo del 16,6 per cento rispetto al 2020 e le esportazioni di abbigliamento sono state pari a 11,12 miliardi con un +65,2 per cento. Le importazioni di indumenti e accessori sono state pari a 862 milioni di dollari aumentando del 64 per cento. L’obiettivo dunque è dare più spazio ai marchi nazionali soprattutto in fascia alta: una sorta di moderna autarchia. E ciò che sta succedendo in Xinjiang da marzo ha solo accelerato questo processo.

La fabbrica del mondo è destinata a chiudere: l’era del China Standard 2035
Tutto procede dunque secondo i piani di Xi Jinping. Da anni Pechino si prepara a chiudere quella che è stata definita la fabbrica del mondo. Da un modello di produzione a basso costo votata all’export, l’obiettivo è passare a un sistema di produzione che punti all’autosufficienza e che investa in qualità e tecnologie. Il piano China Standard 2025 (varato nel 2015) è già il passato: ora si è entrati nell’era del China Standard 2035 con cui Pechino punta a diventare leader mondiale dell’innovazione hi-tech grazie allo sviluppo delle tecnologie emergenti come il 5G, Internet of things e intelligenza artificiale. In mezzo poi c’è stata la pandemia che rivoluzionando l’interscambio mondiale, ha dimostrato che nessuno, nemmeno il Dragone, può considerarsi al sicuro.