Due Chiese cattoliche in un Paese di 1,4 miliardi di abitanti, la Cina, dove oltre il 74 per cento delle persone si dichiara atea o aderisce alla religione tradizionale cinese, in una cornice dottrinale influenzata da taoismo e confucianesimo, due antiche filosofie diffuse in tutta l’Asia. È questo il particolare contesto in cui è costretto a operare il cattolicesimo oltre la Muraglia. Nella Repubblica popolare cinese esiste infatti una Chiesa cattolica “clandestina”, fedele al papa e quindi sotterranea, e una “patriottica”, quella cioè ufficiale ammessa da Xi Jinping e in linea con le posizioni (e disposizioni) del Partito comunista cinese (Pcc). La prima, della quale non si conoscono i dati precisi ma che dovrebbe contare circa 16 milioni di fedeli, non può operare alla luce del sole, e i suoi membri sono considerati dei sovversivi. Al contrario, la seconda, formata da circa 4 milioni di membri, è riconosciuta dal governo cinese.
La pericolosa linea rossa: mettere in discussione la legittimità del Pcc
L’Associazione patriottica cattolica è stata creata nel 1957 grazie all’appoggio dell’Ufficio affari religiosi del governo cinese. È un’associazione nata per controllare le attività dei numerosi cattolici presenti in Cina, ed evitare che questi potessero in qualche modo contraddire la linea politica dettata dal Partito. Nell’ottica cinese, la messa in pratica di tutte le credenze religiose può spingere i cittadini a superare una pericolosa linea rossa: mettere in discussione la legittimità del Pcc, l’unico attore incaricato di avere l’ultima parola, per ogni questione, all’interno della nazione. La Chiesa patriottica ha così iniziato a eleggere e consacrare i propri vescovi in autonomia un anno più tardi, nel 1958, tentando di soddisfare il desiderio dei fedeli e, allo stesso tempo, di recidere il legame tra i cattolici cinesi e il papa. Come è facile intuire, sono subito emersi molteplici nodi tra Pechino e il Vaticano, gli stessi che permangono ancora oggi. Nello specifico, le autorità cinesi non accettano che la Santa Sede possa nominare vescovi e altre figure gerarchiche istituzionali del cattolicesimo nel Paese. D’altro canto, l’Associazione patriottica non è riconosciuta da Roma anche se, nel corso degli anni, ha ridotto le distanze con il papato nel tentativo di risolvere le divergenze.

L’accordo sulla nomina dei vescovi: distanza ridotta ma ancora enorme
È per migliorare la difficile situazione dei cattolici cinesi appartenenti alla chiesa “ufficiale”, dopo gli sforzi di tre papi, che il Vaticano e Pechino hanno firmato, nel 2018, un accordo sulla nomina dei vescovi. Il 22 ottobre 2022, quando gli occhi del mondo erano puntati sul Congresso del Pcc, che era anche la data di scadenza dell’ultimo accordo, la Santa Sede ha annunciato il rinnovo del patto per altri due anni. In sostanza, l’intesa prevede la concessione al Vaticano dell’ultima parola sulla nomina dei vescovi, successiva all’accertamento dell’idoneità all’episcopato dei candidati, da parte dei rappresentanti delle diocesi e degli apparati politici cinesi. La distanza tra le parti si è ridotta, ma resta ancora enorme. In primis perché il clero cattolico “ufficiale” operante in Cina continua a seguire le norme volute da Pechino e non della Santa Sede. E poi perché i cattolici cinesi della Chiesa sotterranea continuato a praticare la loro fede nell’ombra con il rischio di subire continue repressioni.

Le origini della diffidenza di Pechino: la religione “oppio dei popoli”
Per capire le ragioni di un simile contesto bisogna tornare indietro nel tempo. L’ateo Pcc considera la religione un oppio spirituale (il famigerato oppio dei popoli di marxiana memoria) e accusa, in particolare, il cattolicesimo di essere complice dell’«imperialismo occidentale». Molti tra i primi missionari giunti in Cina non offrirono una buona immagine del cattolicesimo. Queste persone erano mosse dalla missione di portare sulla “retta via” i popoli lontani e barbari. Peccato che i cinesi non si ritenevano affatto come tali, e anzi, consideravano barbari tutti coloro che vivevano al di fuori dei loro territori. Si crearono quindi le prime frizioni, divampate nella cosiddetta Rivolta dei Taiping. Dal 1850 al 1865, la Cina fu teatro di una violenta guerra civile tra la dinastia regnante all’epoca, la dinastia Qing, e gli appartenenti alla setta degli “adoratori di Dio“, nata verso la metà degli Anni 40 del XIX secolo e fondata da Hong Xiuquan.

La lotta agli infedeli e un conflitto da 20-30 milioni di morti
Hong, che elaborò una dottrina religiosa cristiana sui generis, si autoproclamò fratello minore di Gesù Cristo e Tianwang (“re celeste”). Iniziò a predicare l’egualitarismo, il monoteismo e la necessità di risollevare la Cina tramortita dalle guerre dell’Oppio. Decine di migliaia di conversioni alla fede cristiana avvennero in tutto il Paese. Le forze del Taiping continuarono a crescere e conquistarono Nanchino, trasformandola nella capitale del loro autoproclamato Stato. I fedeli di Hong, ritenendo gli individui legati alla dinastia di etnia Manciù (la dinastia regnante) esseri “demoniaci”, saccheggiarono città e giustiziarono gli infedeli. Le autorità riuscirono a ristabilire l’ordine, ma il conflitto provocò tra i 20 e i 30 milioni di morti, nonché il rischio che l’impero cinese si dissolvesse.
I timori che la spiritualità fosse un cavallo di Troia anti-comunista
«I diavoli stranieri si chiamano cristiani. I loro sacerdoti predicano la morale di un buddha di nome Gesù. La sua più alta virtù è l’amore […] Ma se l’amore possiede la stessa forza spirituale delle virtù etiche, perché allora gli stranieri qui nel Paese si comportano come diavoli?», si poteva leggere in un manifesto del 1854 a Shanghai a conferma dell’aria che si respirava in Cina. Fu la Rivolta dei Taiping il primo grande campanello d’allarme suonato in Cina e collegato al cattolicesimo. Una lezione successivamente seguita dalle vicende di Piazza Tienanmen. Nel 1989, a Pechino l’esercito cinese dovette ricorrere alle maniere forti per placare i manifestanti assiepati nella piazza centrale della capitale cinese e in rotta di collisione con il governo. Il Pcc, come i Qing quasi cento anni prima, ristabilirono l’ordine ma capirono di aver rischiato tantissimo. In quegli stessi giorni, infatti, in Polonia i manifestanti pro democrazia soggiogarono il governo comunista polacco grazie al fondamentale sostegno di papa Giovanni Paolo II. Da quel momento in poi, la Cina rafforzò ulteriormente il controllo sulla religione, temendo che il tema della spiritualità potesse essere un cavallo di Troia usato dai dissidenti per rovesciare il suo sistema politico.

Ancora grossi disaccordi tra il papa e Xi: uno su tutti, quello su Taiwan
Da quando è entrato in carica nel 2013, papa Francesco ha più volte avuto contatti con Pechino attraverso scambi culturali e diplomazia e inviato diversi telegrammi di auguri al presidente cinese Xi Jinping. Se tra Cina e Vaticano c’è la volontà di proseguire nel dialogo verso un probabile e definitivo disgelo, allo stesso tempo permangono importanti disaccordi. Uno fra tanti: la Santa Sede è uno dei 14 governi che riconoscono la Repubblica di Cina-Taiwan come governo legittimo, in contrasto con la politica cinese secondo cui esisterebbe al mondo una sola Cina, la Repubblica popolare cinese, mentre quella taiwanese non sarebbe altro che una provincia ribelle. Cina e Chiesa cattolica sono inoltre “responsabili” di circa un quinto dell’umanità, hanno una storia antichissima e rivendicano, chi in un modo, chi in un altro, la leadership morale. Ed è proprio la rivendicazione di un’unica leadership morale che amplifica la rivalità. In ogni caso, entro il 2030 la Cina dovrebbe poter contare su quasi 250 milioni di cristiani: un numero enorme – considerando che il Partito comunista ha 90 milioni di iscritti – che potrebbe aver spinto Xi a intensificare la repressione per punire i fedeli che non rispettano i regolamenti religiosi imposti dal governo. Lo spauracchio di una rivolta è sempre viva nei ricordi del Pcc.