Le acque del Mar Cinese Meridionale sono sempre più agitate. Oltre alle irrisolte rivendicazioni marittime incrociate che coinvolgono praticamente tutti gli Stati della regione, Cina in primis, e alla questione taiwanese, ci sono due nuovi fattori destabilizzanti in un’area che si candida a diventare l’epicentro dell’instabilità globale. I riflettori sono puntati su Pechino, desideroso di consolidare la propria presenza nel proprio “cortile di casa”. Da un lato, il Dragone ha dato il via a una sorta di guerra dei cavi sottomarini, con possibili ripercussioni sulla rete Internet internazionale; dall’altro, ha invece annunciato l’intenzione di voler costruire la più grande draga aspirante del mondo, che servirà ad accelerare la costruzione di isole militarizzate cinesi in acque contese. La doppia notizia è particolarmente rilevante perché, in entrambi i casi, la longa manus di Xi Jinping rischia di mettere i bastoni tra le ruote degli Stati Uniti che stanno cercando in tutti i modi di rafforzare le alleanze asiatiche per mitigare l’ascesa cinese.

La guerra dei cavi sottomarini
Per quanto riguarda le infrastrutture sottomarine, la Cina ha iniziato a ostacolare i progetti per la posa e la manutenzione dei cavi Internet che attraversano i fondali del Mar Cinese Meridionale. Il motivo è semplice: il governo intende esercitare il massimo controllo su queste componenti strategiche che trasportano i dati del mondo da una parte all’altra dell’emisfero. Requisiti più severi per l’approvazione dei lavori e lunghi ritardi burocratici hanno messo in seria difficoltà le aziende incaricate di piazzare i cavi in loco. Il Financial Times ha fatto un esempio concreto. Il piazzamento del cavo SJC2, ancora in costruzione, è stato ritardato di oltre un anno. Una volta terminato dovrebbe collegare Giappone e Singapore, Taiwan e Hong Kong, ma le obiezioni cinesi e innumerevoli autorizzazioni mancanti ne hanno rallentato i lavori fino allo stallo attuale. Scendendo nei dettagli, pare che la Cina abbia sospeso per svariati mesi l’approvazione per la prospezione del fondale, situato nelle sue acque territoriali intorno a Hong Kong, e nel quale sarebbe dovuto transitare il cavo (per la cronaca, di proprietà di un consorzio che comprende China Mobile, Chunghwa Telecom e Meta). Per quale motivo? Pechino teme che uno degli appaltatori possa condurre azioni di spionaggio per conto degli Stati Uniti o installare apparecchiature estranee nei pressi del proprio territorio.

Il controllo sul Mar Cinese Meridionale
Nelle profondità del Mar Cinese Meridionale prende forma un affollato percorso di cavi sottomarini. La sua rilevanza è indubbia, visto che si tratta del percorso più efficiente per collegare l’Asia orientale con il Sud e l’Ovest del continente e con l’Africa. In generale, circa il 95 per cento di tutto il traffico Internet intercontinentale – dati, videochiamate, messaggi istantanei ed e-mail – viene trasmesso attraverso oltre 400 cavi sottomarini attivi che si estendono per 1,4 milioni di chilometri. A partire dal 2020, e in concomitanza con l’aumento delle tensioni con la Cina, gli Stati Uniti hanno però iniziato a bloccare il coinvolgimento cinese nei progetti di consorzi internazionali relativi alla costruzione e gestione dei cavi Internet. Washington ha inoltre negato l’autorizzazione a installare i cavi che avrebbero collegato il proprio territorio alla Cina continentale e a Hong Kong. Da quel momento in poi, Pechino ha rafforzato il controllo su qualsiasi infrastruttura situata nelle proprie acque, anche in quelle situate all’interno delle aree marittime contrassegnate dalla controversa “Linea dei nove tratti“. Sorge qui un problema enorme, visto che la sovranità cinese su questa porzione marittima – tratteggiata negli Anni 70 dall’allora premier Zhou Enlai, che accorciò gli 11 tratti messi nero su bianco dai nazionalisti del Kuomintang nel 1947 – non è internazionalmente riconosciuta. È anzi contestata da vari Stati affacciati sul Mar Cinese Meridionale (come Vietnam, Malesia, Filippine e Brunei). Secondo il diritto internazionale, inoltre gli Stati o le società che posano e mantengono i cavi Internet devono chiedere permessi governativi per l’accesso al fondale marino entro 12 miglia nautiche dal territorio di un Paese. Ma il permesso non è generalmente richiesto per operazioni nelle acque comprese tra le 12 e le 200 miglia dalla terraferma, le stesse che formano la cosiddetta “zona economica esclusiva” di una nazione. Le autorità cinesi non solo hanno reso lungo e oneroso il processo per ottenere i permessi entro le 12 miglia; hanno iniziato anche richiedere i permessi per la posa di cavi nelle acque territoriali rivendicate oltre le 12 miglia, in apparente violazione del diritto marittimo internazionale. In attesa che la Cina possa allentare le sue misure, ipotesi al momento impossibile, c’è soltanto una soluzione: bypassare la zona più calda del Mar Cinese Meridionale. Non a caso due cavi in costruzione, denominati Apricot ed Echo, trasporteranno i dati da Singapore al Giappone e agli Stati Uniti, girando intorno all’Indonesia.

Le isole militarizzate di Pechino
Allo stesso tempo la Cina è impegnata in una partita ben più offensiva rispetto a quella dei cavi sottomarini. Il South China Morning Post ha fatto sapere che Pechino sta sviluppando una “super draga” che sarà il 50 per cento più potente delle attuali. Si tratta di navi capaci di scavare i letti dei fiumi o il fondale marino mediante l’impiego di un dispositivo alesatore simile a un trapano, aspirando sabbia e rocce per poi pompare il materiale di scarto a distanza. Imbarcazioni del genere sono utili per liberare corsi d’acqua di navigazione o, come in questo caso, per costruire isole artificiali. C’è chi teme che l’inaugurazione della draga cinese possa presagire un’escalation di Pechino nella costruzione di strisce di terra militarizzate incastonate nel cuore del Mar Cinese Meridionale. Con le quali, in un secondo momento, avanzare le proprie rivendicazioni, ottenere vantaggi strategici e danneggiare Taiwan. Foreign Policy ha rivelato anche la Cina utilizzerebbe operazioni di drenaggio della sabbia per imporre costi enormi a Taipei, costringendo l’isola a dirottare maggiori risorse verso la sua Guardia Costiera, impegnata a monitorare l’area, anziché verso l’esercito. Come se non bastasse, le isole artificiali cinesi possono ospitare installazioni militari che consentono al Dragone di proiettare la sua forza in tutta la regione. Al momento la Cina conta sei isolette capaci di ospitare personale e strutture militari: Fiery Cross Reef, Cuarteron Reef, Johnson South Reef, Mischief Reef, Subi Reef e Gaven Reef. Potrebbe essere soltanto l’inizio.
