La Cina e il bazooka delle infrastrutture

Federico Giuliani
26/12/2022

Per uscire dal rallentamento economico e dalla pandemia, Pechino torna a puntare sulle infrastrutture. Dalla Belt and Road, su cui ha già investito quasi 800 miliardi globali, ai progetti interni: ecco i piani del Dragone.

La Cina e il bazooka delle infrastrutture

I numeri sono impressionanti. Il valore complessivo degli investimenti e degli appalti esteri della Cina, a partire dal 2005, ha raggiunto la soglia dei 2,25 trilioni di dollari. Anche se nella prima metà del 2022, la pandemia di Covid ha in parte raffreddato gli affari del Dragone, mentre le tensioni geopolitiche hanno incrementato la diffidenza nei confronti di Pechino. In ogni caso, la Cina è pronta a rilanciare all’estero la Belt and Road Initiative (BRI), il progetto voluto da Xi Jinping, e, all’interno dei confini nazionali, a supportare la propria economia dando concretezza a un piano infrastrutturale dal peso di mille miliardi di dollari. Appare evidente come le infrastrutture rappresentino una leva fondamentale nell’ascesa cinese. La strategia economico-politica della leadership, che è possibile suddividere in tre step, si è rivelata tanto semplice quanto efficace. Il primo passo è coinciso con la connessione del quadrante orientale della Cina, il più ricco e sviluppato, con l’Ovest del Paese, più povero e arretrato. Una volta collegato quasi ogni singolo centro urbano, il gigante asiatico ha pensato bene di procedere con il secondo step, dando vita a un hub infrastrutturale globale finanziando decine e decine di progetti in altri Paesi. Il terzo e ultimo step avrebbe dovuto trasformare la Cina nell’epicentro commerciale del Pianeta, o ancora meglio, nella chiave di volta di un’ipotetica globalizzazione 2.0. Il condizionale è d’obbligo. Se è vero che il governo cinese ha vinto la scommessa infrastrutturale, costruendo una vera e propria ragnatela capace di connettere l’ex Impero di Mezzo ai cinque continenti, è pur vero che l’emergenza Covid ha rovinato i sogni di gloria di Xi pochi passi prima del traguardo.

La Cina e il bazooka delle infrastrutture
Un cantiere a Pechino (Getty Images).

Dall’Italia al Myanmar: il risveglio della Belt and Road

A proposito di Belt and Road, dal 2013, anno in cui è stata annunciata, al 2020, la Cina ha speso 762,57 miliardi di dollari in investimenti globali. Stiamo parlando mediamente di 95 miliardi l’anno dedicati al progetto che, tra i 150 di Paesi coinvolti, vede anche l’Italia. Anzi, Roma risulta tutt’ora l’unico Stato del G7 ad aver messo nero su bianco un Memorandum of Understanding sulla Via della Seta con la controparte cinese. In attesa di capire come si comporterà il governo italiano, che prima con Mario Draghi poi con Giorgia Meloni sembra voglia smarcarsi dalla BRI, ricordiamo che, dal 2017, Pechino ha messo le mani su una fetta di autostrade italiane. E lo ha fatto grazie al Silk Road Fund, un fondo d’investimento creato nel 2014 per investire nei progetti infrastrutturali legati proprio alla Belt and Road. Quando Atlantia, la holding della famiglia Benetton che controllava la società operativa Autostrade per l’Italia (Aspi), ha deliberato la cessione del 10 per cento della stessa Aspi, tra gli acquirenti figurava anche il Silk Road Fund. L’operazione ha portato in dote ai cinesi il 5 per cento di Aspi, ora controllato da Cassa Depositi e Prestiti. Le voci di una possibile ritirata dei cinesi si è congelata e il fondo continua a restare al suo posto. Resta da vedere in che modo la Cina sfrutterà questa presenza. Wang Yanzhi, presidente ed executive director del fondo cinese, qualche mese fa aveva parlato di una collaborazione con Cdp, Snam e Atlantia per cercare «nuovi sbocchi in Paesi terzi». Nel frattempo, la BRI vera e propria si sta rianimando lontana dalla diffidente Europa. In Asia, precisamente nel Myanmar, ci sono dozzine di progetti infrastrutturali che la Cina sta finanziando a colpi di miliardi di dollari, tra collegamenti ferroviari ad alta velocità e dighe. Il jolly infrastrutturale del Dragone coincide però con il Corridoio Economico Cina-Myanmar che, attraverso gasdotti, oleodotti, ferrovie e strade, dovrebbe consentire a Pechino di affacciarsi sull’Oceano Indiano, grazie al porto di Kyaukphyu, da costruire sulla costa occidentale del Myanmar a un costo di 7 miliardi di dollari.

La Cina e il bazooka delle infrastrutture
Alta velocità alla stazione di Hangzhou (Getty Images).

Gli investimenti infrastrutturali come antidoto alla crisi

Tra il 1994 e il 2000 il governo cinese ha speso 0,91 miliardi di yuan all’anno (poco più di 135 milioni di euro) per costruire autostrade in 529 contee e 21 province, focalizzandosi sulle aree rurali e più povere, dislocate nell’ovest del Paese. Nello stesso periodo, la Cina ha realizzato 42 mila chilometri di nuove autostrade e migliorato quelle esistenti. Alla fine del 2002, l’estensione autostradale a livello di contea e municipalità misurava 1.065 milioni di chilometri, ovvero 244 mila chilometri in più rispetto al 1995. La campagna “Go West”, pensata appositamente per aumentare i redditi, allentare le tensioni sociali e portare prosperità nelle zone occidentali economicamente depresse, era tuttavia soltanto il primo e più evidente step. Già, perché il Dragone, nel corso dell’ultimo ventennio, ha attuato molteplici programmi infrastrutturali, facilitando il mercato interno, attirando investimenti stranieri, abbassando i costi di produzione e di trasporto e, in generale, consentendo al suo motore economico di raggiungere, in breve tempo, velocità inimmaginabili. La strategia infrastrutturale della Cina ha dunque contribuito in maniera fondamentale alla crescita nazionale e, di pari passo, alla riduzione della povertà endemica. E non è un caso che la Repubblica Popolare rispolvererà adesso quella stessa strategia, riversando fiumi di denaro in investimenti, per mitigare come in passato gli scossoni interni e internazionali. Pechino, ha sottolineato Bloomberg, sta mettendo a disposizione dei fondi governativi quasi 1 trilione di dollari per realizzare quest’obiettivo. Nel nord della Cina sono in costruzione “basi” per accumulare energia eolica e solare che, entro il 2030, dovrebbero contenere la stessa capacità rinnovabile dell’intera Europa. La costruzione di canali, dighe e bacini idrici è stata intensificata, con oltre 800 miliardi di yuan a disposizione (più di 108 miliardi di euro). La punta di diamante è un tunnel di 200 chilometri incaricato di spostare l’acqua dal fiume Yangtze verso un bacino idrico che alimenta la Cina settentrionale, ma  in cantiere ci sono anche infrastrutture urbane, come strade, reti di condutture del gas e dell’acqua e parchi, e l’aumento della rete ferroviaria. Ricordiamo che Pechino può già contare su 40 mila chilometri di ferrovie ad alta velocità, ossia più del doppio rispetto al resto del Pianeta messo insieme. Il progetto più ambizioso riguarda una linea di 1.629 km che dovrebbe collegare la provincia del Sichuan alla capitale tibetana Lhasa, salendo per più di 3.000 metri. La Cina prevede di avere 70 mila km di ferrovia ad alta velocità entro il 2035. Questi progetti diventeranno i prossimi “elefanti bianchi” cinesi oppure contribuiranno a far (ri)accelerare la locomotiva del Dragone?