Il partito dello status quo in Italia sta diventando sempre più sfacciato. C’è una voglia matta di allineamento al manovratore, tanto che il sacrosanto diritto al voto risulta quasi d’impaccio, se non superfluo. Galeotta l’agenda Draghi-Mattarella che spopola soprattutto nelle stanze dei bottoni. Col rischio, però, che buona parte dell’establishment, ostentando un fortissimo interesse di facciata per le sorti dei cittadini, finisca per far lievitare ulteriormente il già enorme astensionismo.
Brunetta e il «bipolarismo bastardo»
Con un percorso ormai tracciato fino al 2026, tra riforme e interventi in chiave Pnrr, il sottinteso della narrazione dominante sembra proprio essere questo: il voto non serve. Ad esempio, ne farebbe volentieri a meno, soprattutto con l’attuale legge elettorale, il ministro per la Pa Renato Brunetta che da tempo si scaglia contro il «bipolarismo bastardo» e che ieri in un’intervista al Corsera esplicitava ancora meglio i suoi desiderata. Per carità, a fin di bene. Dei cittadini, naturalmente. E così, per il titolare di Palazzo Vidoni, senza tirare Draghi per la giacchetta, basta l’agenda «per tracciare il percorso. Il programma per l’Italia di domani già c’è. Mettiamo gli italiani in condizione di scegliere tra questa rivoluzione in corso e l’ingannevole bipolarismo bastardo» e poi «il resto verrà da solo». Brunetta non ci gira intorno: «Perché affannarsi a pensare a nuovi centri, al centrodestra unito, al campo largo…quando è chiaro, documentato, il successo dell’esperienza che stiamo vivendo? Quando esiste già un programma riformista riconosciuto dall’Europa di cinque anni e oltre?».

La rincorsa al centro può indispettire l’elettorato
Ecco, gli italiani. Saranno loro alla fine a scegliere l’offerta che risulterà più convincente. Chissà però se una proposta con Draghi al centro, che affannosamente e da più parti si sta cercando di confezionare, non finisca per indisporre l’elettorato. È immaginabile una vendetta dell’astensionismo nell’urna? Secondo il sondaggista Livio Gigliuto, vicepresidente dell’Istituto Piepoli, la principale ragione dell’astensione rimane «la sensazione che il voto non sia un elemento determinante per il destino del Paese, della propria Regione o città», spiega a Tag43, «Questo poi si acuisce quando dopo le elezioni si verificano grandi mutazioni nelle coalizioni che abbiamo votato. La ragione per cui, non a caso, è nato il maggioritario». Detto questo, però, Gigliuto avverte: «Gli italiani sono affezionati alla dicotomia destra-sinistra. Questa cosa nuova che sta nascendo al centro, legata all’agenda Draghi, è quasi una forzatura rispetto alla naturale propensione degli elettori». Non solo, ma a sentire l’esperto c’è un altro elemento da tenere in considerazione: «Gli elettori si appassionano di più quando le campagne elettorali raccontano storie diverse e quindi ci si può posizionare. Di solito, in Italia l’opzione è tra due offerte: centrosinistra e centrodestra. E anche le prossime elezioni saranno vissute così. È molto difficile immaginare una campagna elettorale status quo versus tutto il resto, continuità col governo Draghi versus discontinuità». Nonostante la fiducia riposta nel presidente del Consiglio? «È vero che il 64 per cento dei cittadini si fida molto di Draghi», è l’analisi del sondaggista, «ma rimane il fatto che nessun partito lo può inglobare. Difficile che qualcuno possa raccontare all’opinione pubblica di essere il rappresentante dell’offerta politica Draghi. E questo a prescindere da quale sarà la legge elettorale. Il premier è vissuto come alternativa ai partiti. Il ‘vota me così voti la continuità con questo esecutivo’ non funzionerebbe». Senza contare, tra l’altro, che proprio il diretto interessato ha fugato tutti i dubbi, escludendo la possibilità di essere il federatore di una coalizione al centro. Lo ha ribadito anche ieri in conferenza stampa: «Sì, confermo, questo è l’ultimo governo con me premier». Vero, in politica tutto è possibile, ma per ora l’ipotesi di un Draghi bis si allontana.

I cantori dell’agenda Draghi: da Calenda a Renzi fino alla new entry Di Maio
Nonostante l’attuale maggioranza sia sempre più divisa, con M5s e Lega che minacciano la crisi a targhe alterne, al centro gli aedi della stabilità a prescindere e i cultori dell’agenda Draghi si moltiplicano. Il posto d’onore lo occupa Carlo Calenda. Il leader di Azione non ha mai nascosto il suo auspicio di un «Draghi bis dopo il 2023». Per fortuna ammette che «il copione delle elezioni 2023 non è già scritto». Ma in fin dei conti, si tratta di un particolare secondario che non lo distoglie dai suoi piani: «Noi siamo pronti con +Europa ad andare al voto con l’attuale legge elettorale per poi chiedere a Fi e al Pd e anche alla sinistra, se ci stanno, a lavorare a un nuovo progetto di larghe intese guidato ancora da Mario Draghi che considero la persona giusta». Poi se non dovesse starci, «si cercherà un altro nome». E che dire di Matteo Renzi che non perde occasione per prendersi i meriti dell’intera operazione che ha portato a Palazzo Chigi l’ex presidente della Bce? L’ultimo arrivato, anche lui ammaliato dalle sirene draghiane, è Luigi Di Maio, la cui operazione si declina tutta in una parola: responsabilità (la sua e quella degli scissionisti) contro l’irresponsabilità (in primis dei suoi ex compagni di viaggio colpevoli di picconare il governo per questioni di «consenso»).
The Italian Prime Minister, Mario Draghi talks on the phone upon his arrival at the Prado Museum where Spanish Prime Minister Pedro Sanchez, offered a dinner to the Heads of State during the NATO summit, in Madrid, Spain. 📸 epa / EFE / Ballesteros#Draghi #NATO #NATOSummit pic.twitter.com/F4YSiz4ck6
— european pressphoto agency (@epaphotos) June 30, 2022
Chi ha paura del voto
Il punto vero è che in molti, se potessero, vorrebbero congelare il tempo presente. In prima fila, naturalmente, ci sono i ministri preoccupati di mantenere la poltrona. Persino i più insospettabili come la cinque stelle Fabiana Dadone che il 23 giugno scorso scriveva sui social: «Le sirene degli uomini della provvidenza che ci vogliono fuori dal governo dovrebbero restare in vacanza». Una stilettata all’ex compagno di partito Alessandro Di Battista. A loro si aggiungono i peones atterriti dalla lotteria della rielezione, ancora più difficile dopo il taglio del numero di posti in Parlamento. E i partitini che non arrivano alla soglia del 3 per cento. Senza poi considerare chi, soprattutto nel centrodestra, teme un exploit di Giorgia Meloni alle prossime Politiche. La leader di FdI ne è consapevole, tanto che qualche giorno fa a Un giorno da pecora circa la possibilità di un altro governo Draghi ha sbottato: «So che si lavora per questo sicuramente. Figuriamoci, ci vuoi mettere qualcuno che si scelgono gli italiani al governo? Ma che stiamo scherzando?». Non che fuori dai Palazzi, però, si respiri un’aria diversa. L’analisi dell’ex direttore de La Stampa Marcello Sorgi dopo i risultati delle Amministrative è esemplificativa. In sintesi, una celebrazione della non-vittoria: «Viene da chiedersi se davvero sia un male, ammesso che si verifichi, che anche le elezioni del 2023 si concludano senza vincitori né vinti», scriveva il 28 giugno. «E la risposta, da pronunciare sottovoce e al momento opportuno, è che non è affatto detto che lo sia se serve a garantire a Draghi di poter portare a termine il proprio lavoro in anni come i prossimi, meno affollati di scadenze elettorali, e se può essere utile ai partiti per rigenerarsi, ben venga la ‘non vittoria’». Ed ecco che il cerchio si chiude sul Draghi bis. Ma di questo passo, tanto vale chiudere pure le urne.