La salute senza soldi è una mezza malattia. Lo diceva spesso la zia Zhora, aristocratica signora vecchio stampo come non ne fanno più, leader indiscussa del clan bulgaro della famiglia e donna incapace di valutare l’effetto di ogni singolo atto. Una volta, a una cena a Moltrasio con diversi ospiti presenti, raccontò che in gioventù, le capitò anche di lavare i piatti. Fatto sta che senza zia Zhora oggi nessuno di noi sarebbe qui, poiché fu proprio lei il motore di tutto il processo che portò alle nascite di un grappolo di cugini di cui io sono l’ultimo discendente diretto in ordine di nascita.
Nata a Sofia da una famiglia di teatranti la sua vita cambiò di colpo quando sposò l’ingegner Gerolamo Gianni, costruttore milanese, in trasferta in Bulgaria dal febbraio 1929, per sovrintendere alla realizzazione dell’acquedotto di Sofia. L’opera si sviluppava lungo gli 80 km tra le montagne della Rila e la Capitale, con 24 km di galleria a foro cieco, 30 in galleria artificiale e altri 24 con sifoni in tubi di acciaio. L’inaugurazione dell’acquedotto costituì per Sofia un avvenimento di grande rilievo, per il quale l’ingegner Gerolamo Gianni fu insignito della commenda dalle autorità diplomatiche italiane e da quelle bulgare, ottenendo anche la cittadinanza onoraria della città. Furono loro, scegliendo successivamente Milano come base definitiva a permettere, adottandolo legalmente, l’arrivo di mio padre in Italia che, finita la guerra nel 1946, si trasferì da Sofia nel lussuoso appartamento dove vivevano in Viale Bianca Maria e dopo un disastroso primo anno di università al Politecnico decise di cambiare facoltà, iscrivendosi alla Bocconi.
Rogito ergo sum diceva qualcuno. Purché con Artemide o Flos a illuminarmi, aggiungerebbero loro, figli ultra 40enni di borghesi nevrotizzati
Nei primi Anni 50 successivamente lo raggiunse dalla Bulgaria, grazie al ricongiungimento familiare, anche sua sorella Marta, che a differenza sua non annetterà mai al proprio il secondo cognome Gianni. Furono anni d’oro quelli, anni in cui Kiril, che tutti in famiglia chiamavano Kico, divenne una presenza stabile nel Golfo del Tigullio, affittando una imponente villa a Portofino, che strideva con lo stile più sobrio dei genitori adottivi, soliti passare il periodo estivo nella mastodontica tenuta ai Piani d’Invrea, dall’altra parte della riviera. Ed è proprio al Caffè Biancaneve di Rapallo che Kiko conosce Augusta, donna elegantissima con una spiccata vocazione del sé, che pochi mesi dopo, contro il volere della famiglia, decide di sposare a Milano, in un matrimonio lampo, dal quale nel luglio del 1963 nacque mio fratello Stefano. Coppia fitzgeraldiana, amanti fino alla fine anche se reciprocamente infedeli, restarono per anni sospesi in una dimensione di estetismo estrema che comprese, oltre all’ipermondanità, l’esempio lampante della auto-rappresentazione della giovinezza e della loro misura sociale rispetto al resto del mondo. Vissero gli anni del loro tormentato matrimonio in un attico di costruzione Facchin & Gianni in Corso Lodi, che Gerolamo Gianni gli regalò, come d’abitudine accadeva ai componenti della famiglia. Era uso infatti in quegli anni che tutti abitassero nelle costruzioni della ditta di famiglia tanto che gli stessi Zhora e Gerolamoad un certo punto si trasferirono in un fiammante appartamento in un palazzo nuovo di zecca in via Lamarmora, abbandonando lo storico stabile di Viale Bianca Maria. Lo stesso accadde per Marta, alla quale venne donato, fresca di matrimonio con il conte Serbelloni, un altro splendido attico in via Banfi al numero 5, affacciato sul Parco delle Basiliche di Piazza Vetra.

Penso a questo mentre pedalo per le strade sghembe della city, uscito senza una meta precisa, in sella alla mia bici Rossignoli color blu diplomatico e faccio il giro delle case dove ho abitato e dove prima di me hanno abitato i miei famigliari. Sarà perché oggi, in questo sabato di gennaio il cielo è così limpido da invogliarmi ricordi particolarmente oscuri e malinconici o forse semplicemente perché l’altro giorno sul Foglio ho letto un articolo che descriveva il mattone come protagonista assoluto dell’immaginario italiano. Ne parlavo giusto due sere fa con Giulio, testa pensante e giovane giornalista di diverse testate, davanti a un Martini, seduti uno di fronte all’altro ai tavolini di marmo della Belle Aurore, che mi raccontava l’esistenza di determinati gruppi su whatsapp dove ci si scambiano immaginarie ville in Toscana, attici parigini o addirittura intere isole greche. Le conseguenze si vedono nei profili social di una certa categoria di figli ultra 40enni di borghesi nevrotizzati da lampade e oggetti di design e particolarmente orgogliosi dei propri luminosi appartamenti terrazzatissimi, regolarmente comperati dai genitori, con doppia esposizione e affaccio interno. Rogito ergo sum diceva qualcuno, purché con Artemide o Flos a illuminarmi, aggiungerebbero loro.
Palazzo Fidia era l’esatta rappresentazione della famiglia di mia madre: elegante, sofisticata, irregolare, squattrinata, disfunzionale, scomposta, lacerata, disgraziata
Penso a tutto questo e continuo a pedalare, con John Coltrane in cuffia passando da Viale Bianca Maria, proseguendo tra i sampietrini sconnessi del pavé e le rotaie del tram di via Lamarmora, toccando Piazza Vetra e, tornando indietro, oltrepassando quello che una volta era lo Squat Konkordia, oggi trasformato in Château Monfort, e arrivando fino a Piazza Adigrat e via Tiepolo, dove si trovano due delle case che più ho amato, tra la scapestrata tardo-adolescenza e il firmamento elettro-bohémien della giovinezza. Sfratti, pignoramenti, ipoteche, sequestri, abbandoni, aste selvagge. Questo son per me le case dove ho abitato, perché anche la mia vita, come quella dei personaggi raccontati da Bajani nel Libro delle case, può essere narrata tramite la descrizione degli appartamenti e dei palazzi dove ho vissuto, ora per poco tempo (come Piazza Adigrat), ora abusivamente (come lo Squat Konkordia), ora per anni, (come via Tiepolo). Se i 40enni di oggi, come i personaggi del libro Class di Francesco Pacifico, sono ossessionati dalle planimetrie poiché le ritengono lo specchio ideale di ciò che sono, io lo sono ugualmente dai posti dove ho vissuto, che non mi appartengono più e che diventano la perfetta allegoria di una decadenza e di un declassamento irreversibile, oltre che doloroso. Il mio e quello della mia famiglia. Non è un caso quindi che il cuore mi si spezzi durante tutto il tour due sole volte. La prima davanti al portone dello stabile in Via Amedeo d’Aosta al numero 8 e la seconda davanti a Palazzo Fidia, in via Mozart. Le due case dell’infanzia.

Con il principesco attico di via Amedeo d’Aosta ho avuto sempre un rapporto viscerale, un po’ forse perché ci sono nato e un po’ forse perché ricordo gli anni in cui ci sono stato come gli unici anni dove la parola famiglia per me aveva ancora davvero un senso. Composto da un doppio ingresso, doppio soggiorno, cucina abitabile, balcone, quattro camere da letto, studio, quadrupli servizi, due balconi e un ampio terrazzo, si abitava in sei in quell’appartamento e mia madre era già morta. Eravamo io, mio fratello, mio padre, la mia matrigna Valentina e due donne di servizio di colore, Lucia e Guadalupe. Mio padre a quei tempi era per noi una specie di James Bond, con pochette piegata a regola nel taschino, revers importanti, cromatismi avvolgenti, scintillanti Rolex, scarpe Oxford e gemelli preziosi. Il principesco attico di via Amedeo d’Aosta era come lui. Palazzo Fidia invece era l’esatta rappresentazione della famiglia di mia madre: elegante, sofisticata, irregolare, squattrinata, disfunzionale, scomposta, lacerata, disgraziata. Risalente alla seconda metà degli Anni 20 è la massima rappresentazione artistica di Aldo Andreani, l’architetto-scultore che turbò i borghesi dell’epoca e stregò Michelangelo Antonioni che ci girò alcune scene del film Cronaca di un amore. Nel triangolo stregato tra via Serbelloni, via Melegari e via Mozart, accanto alla diversamente aristocratica villa Necchi Campiglio, Palazzo Fidia è molto conosciuto a Milano e per la sua stravaganza venne considerato come una “sarabanda sfrenata” o un “jazz architettonico”. In quel palazzo visse per uno sterminato periodo tutta la matriarcale famiglia di mia madre, al terzo piano, in quella che da sempre per me è la casa di mia nonna, in cui da piccolo mi piaceva tanto stare, e che, ancora oggi al pensiero del suo disordine e della sua assurdità sembra costruita apposta per proteggermi.