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La verità? On s’en fout

Davvero importa se Carrère abbia o meno mentito circa le esperienze raccontate nel suo ultimo lavoro? I criteri per giudicare un’opera sono altri. In Yoga lo scrittore francese si mette a nudo, parlando di depressione, di meditazione e anche di rinascita. E il risultato è convincente.

12 Giugno 2021 15:4212 Giugno 2021 15:47 Laura Gotti
la polemica dell'ex molglie di Carrere su Yoga non ha senso

Davvero la cosa che interessa maggiormente ai lettori è sapere se la storia scritta da Emmanuel Carrère sia vera o l’abbia romanzata? Parliamo di Yoga, l’ultima opera letteraria dello scrittore francese uscita lo scorso settembre e pubblicato in Italia da Adelphi lo scroso 24 maggio. La polemica nasce dall’accusa mossa allo scrittore dalla ex moglie Hélène Devynck non appena uscito il libro: Carrère ha scritto di lei senza chiederle il permesso e avrebbe mentito su diversi passaggi delle vicende raccontate con il solo scopo di nutrire il suo ego narcisistico.

Yoga è un libro magnifico, la verità è solo un dettaglio

La verità è che Yoga è un libro magnifico, doloroso, intenso e scritto con la solita maestria di Carrère e sì, anche con il suo approccio più amato, cioè quello dell’autofiction in cui lo scrittore si mette a nudo raccontando le parti più private di sé, senza pudore, senza paura. Forse, non tutto quello che scrive corrisponde a verità. Nessuno di noi si racconta la verità fino in fondo, perché aspettarselo da un romanzo? Solo perché c’è una dichiarazione d’intenti dello scrittore? Solo perché il romanzo è narrato in prima persona? Dovrebbe importare solo il risultato e cioè la prosa, il periodare scelto per far girare i pensieri. E i pensieri in questo libro girano molto, a partire dalle idee sullo yoga e sulla meditazione che lo scrittore pratica da 30 anni. Che sono, però, uno spunto per parlare d’altro, della sua vita, di migranti, di Charlie Hebdo, della morte.

 

la polemica su yoga di carrere
La copertina di Yoga, l’ultimo romanzo di Carrère uscito per Adelphi il 24 maggio.

Il libro si divide cinque parti dove la terza, Storia della mia pazzia, la fa da padrona. Perché Carrère racconta della sua depressione, quel cane nero che ti insegue – come già la definì Winston Churchill – dei 14 elettroshock subiti e della sua rinascita che una rinascita non è perché il baratro è sempre a un passo e lui sa che ci potrebbe cadere di nuovo. Cercare solo la veridicità leggendo questi capitoli è piuttosto riduttivo. Se non altro perché sappiamo che quel dolore e quel buio potrebbero colpire ognuno di noi. Più della verità, dovrebbe importare la capacità di raccontare l’abisso che spinge un essere umano a chiedere l’eutanasia perché non può più andare avanti.

Il volontariato tra i migranti e la lenta rinascita. Ma senza lieto fine da favola

Le altri parti del libro hanno un tono diverso. Quella che riguarda la meditazione vipassana e il ritiro a cui lo scrittore partecipa è, a tratti, divertente. Il ritiro, le persone che vi partecipano, lo scenario, il silenzio richiesto raccontano in modo coinvolgente una pratica ormai di moda che, per la maggior parte delle persone, ha perso spiritualità. Un altro tono ancora si trova quando lo scrittore arriva sull’isola di Leros, dopo il buio della malattia, per fare volontariato in un centro di accoglienza per migranti. Questa parte è un ottimo reportage giornalistico. Nel libro l’esperienza dura mesi, mentre l’ex moglie ha dichiarato che si è trattato solo di qualche giorno. Poco importa: chi non ha mai ingigantito un fatto della propria vita? Il finale è dedicato alla rinascita, ma è ben lontano da un favolistico happy ending. Carrère riscopre l’amore, sta con una donna più giovane che pratica yoga. Esattamente quella ginnastica che all’inizio del libro gli faceva orrore. Alla fine invece quel tipo di yoga viene accolto con un nuovo sguardo, mitigato dalle esperienze dolorose vissute, o, ancora più probabile, solo dal tempo trascorso. C’è serenità, forse l’attesa di un’altra caduta o forse di una nuova opportunità.

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