Se un redivivo Gramsci mi chiamasse «onesta gallina della letteratura italiana» io mi bacerei i gomiti. Anzi, farei scrivere la definizione sulle fascette di tutti miei libri e la adotterei come bio su Twitter. Una patente di onestà firmata Gramsci non è da tutti, e la gallina è la migliore fornitrice di proteine nobili, incruente (almeno per i vegetariani) e a basso costo. Anzi, essere chiamata «onesta gallina» di una letteratura popolata, oggi come ai tempi di Gramsci, da parecchi galli disonesti, è un vero e proprio titolo di merito, una medaglia al valore. Invece, chissà perché, su Carolina Invernizio il giudizio gramsciano è pesato solo come un anatema irridente, una condanna snobistica. Del resto la regina del feuilleton (morta nel 1916 dopo avere sfornato più di 120 romanzi, tutti di successo, fra cui classici sempreverdi come Il bacio di una morta e La sepolta viva) era una donna, il che squalificava ipso facto tanto le sue opere quanto quelle di Deledda e Aleramo. Non basta: Invernizio scriveva soprattutto per le donne – e non le «intellettuali gemebonde» che spiacevano al suo contemporaneo Guido Gozzano, ma per le lavoratrici, domestiche, operaie, artigiane, affamate di sogni, avventure ed emozioni più che di bella prosa. E per una popolana nell’Italia post-unitaria i romanzi più emozionanti non erano le storie d’amore a lieto fine, come nel romanzo rosa, ma le trame in cui una donna calpestata e vilipesa nei modi più crudeli riusciva dopo incredibili peripezie a vendicarsi, ad avere giustizia, a costo di farsela sola. Decisamente non un bel messaggio in un Paese in cui le massime virtù richieste alle donne erano il silenzio e la sottomissione. Così, anche se i romanzi di Invernizio sono stati il guilty pleasure di tutti gli italiani alfabetizzati dalla fine dell‘800 alla Grande Guerra (compresi i milioni di connazionali che in quegli anni emigravano nelle Americhe), l’”onesta gallina” è stata relegata dai benpensanti e benleggenti nella stia delle pennivendole, salvo occasionali revival e amorose parodie da parte di raffinati come Alberto Arbasino e Paolo Poli.

Carolina Invernizio brevettò l’investigatrice in gonnella antesignana di Lolita Lobosco e Imma Tataranni
Lei, saggiamente, se la rideva del disdegno dei parrucconi. Sapeva che le loro mogli e sorelle erano le sue più fedeli lettrici. E scrivere romanzi a base di sangue, veleno e vizio era solo metà della sua vita; l’altra era dedicata all’amato marito, colonnello e direttore del Regio Panificio militare, e ai doveri di una perfetta madama torinese moderatamente conservatrice. Carolina Invernizio acrobata del doppio binario, dunque, come tante donne di oggi, e con più soddisfazioni. Dubitando che qualcuno invocherà mai una graphic novel su questa grande italiana, ne ho fatto la protagonista di un romanzo, Carolina dei delitti. Giallo, ovviamente. L’investigatrice in gonnella, del resto, l’ha brevettata proprio Carolina Invernizio con Nina poliziotta dilettante (1907), antesignana di Lolita Lobosco, Imma Tataranni, Alice Allevi e altre delle rappresentanti della quota rosa del nostro poliziesco. In Carolina dei delitti, ambientato nel 1911, anno dell’Esposizione Universale e della guerra di Libia, ci sono tutti gli ingredienti del vecchio feuilleton, amori torbidi, doppie identità, intrighi di famiglia, agnizioni a sorpresa, insomma, tutto quello che nel 2023 ci tiene incollati a ogni puntata di Chi l’ha visto?. Condito, però, con una spezia che madama Invernizio usava solo (ma in abbondanza) nella vita: l’ironia. E insaporito da un pizzico di suggestiva fatalità: la casa editrice del romanzo, Salani, è la stessa che pubblicava i peccaminosi libri di Invernizio. Per gentile concessione di Tag43, ve ne faccio assaggiare l’incipit. Se dopo mi chiamerete «onesta gallina», bè, ne sarò onorata.

Torino, 26 aprile 1911. «Carolina, la duchessa era già morta!». Mia sorella non alza nemmeno la testa dallo scrittoio. Il braccio destro e l’avambraccio, coperto da una mezzamanica di seta nera da scrivano, continuano a spostarsi ritmicamente da sinistra a destra, mentre il pennino scricchiola sulla carta. «Non era morta», replica senza smettere di scrivere. «Era fuggita a Parigi. Con il fidanzato della figliastra». «Sì, ma dopo era morta». Scartabello i fogli che ho ricopiato in bella scrittura. «Stritolata da un tramvai. Ecco qui. Capitolo sedicesimo. ‘Il bellissimo volto contorto da una smorfia di gioia maligna, la duchessa procedeva sull’umido acciottolato degli Champs-Élysées, a quell’ora affollati di vetture. Ebbra della sua stessa perfidia, ella non udì il rombo del tramvai, l’urlo del conduttore, i richiami disperati dei passanti. In pochi attimi le ruote metalliche fecero scempio del corpo flessuoso che era stato la dannazione di tanti…’ Quindi,» e porgo a Carolina l’ultimo foglio che mi ha passato, «la duchessa non può ricomparire nel venticinquesimo capitolo per mandare a monte il matrimonio di Bice».
Il braccio si ferma, il pennino cessa di scricchiolare. Per qualche istante sento solo i nostri due respiri e i rumori della cucina, dove la cuoca sta rigovernando. Carolina prende il foglio, lo accartoccia. Poi si volta verso di me. Ha le guance arrossate, gli occhietti celesti brillano. Chi la vedesse in questo momento le darebbe anche meno anni dei cinquanta che dichiara. «E invece sì che può!». Afferra un altro foglio dalla risma intonsa sullo scrittoio. «Ricompare su una sedia a rotelle e con una maschera sul viso! Il tramvai l’ha maciullata ma non uccisa. È rimasta per anni fra la vita e la morte in un ospedale francese, da dove è uscita invalida e sfigurata. E non pentita!». La penna ricomincia a correre sulla carta, più veloce di prima. «Questo sì che è un colpo di scena. Meno male che ci sei tu, Vittorina! Come farei senza di te?».
Oramai potrebbe essere il mio secondo nome. Vittorina Come-farei-senza-di-te Invernizio. Sorella minore e assistente tuttofare della celeberrima Carolina, la regina del romanzo popolare. Pardon: del romanzo ‘storico-sociale’, come preferisce chiamarlo lei, perché in Italia lo scrittore deve sempre sembrare grave e pensieroso, anche quando racconta storie di duchesse sfigurate e impenitenti. Come farei senza di te? Dovrei risponderle con una lista lunga così. Senza di me non riuscirebbe a scrivere quattro libri all’anno, perfino più di Salgari, che è considerato un mostro di prolificità. Non potrebbe consegnare all’Editore manoscritti immacolati che fanno la gioia del proto. Non guadagnerebbe come suo marito, che pure, come altro funzionario, ha uno stipendio più che rispettabile. Anzi, forse non ce l’avrebbe nemmeno, il marito. Mio cognato è una pasta d’uomo, ma è pur sempre un uomo, e agli uomini non piace tornare a casa dal lavoro e trovare la propria donna con le mani sporche d’inchiostro e niente sulla tavola. Insomma, senza di me mia sorella dovrebbe rinunciare alla doppia vita che conduce da trent’anni; cinque ore quotidiane a intingere il pennino nelle peggiori nequizie dei bassifondi, e il resto del tempo a brillare in società come moglie devota e inappuntabile del colonnello Marcello Quinterno, veterano di Adua e direttore del Regio Panificio Militare. Senza di me se li sognerebbe i ricevimenti del lunedì pomeriggio e le sedute periodiche dalla sarta e dalla modista per rinnovare il guardaroba.
E io, senza di lei? Dovrei rinunciare all’unica vita che ho. Qualcuno dirà che non sarebbe poi una gran perdita: sono quel che chiamano un ramo secco, un soprammobile, un insulto ai voleri della natura. Una zitella. E non di quelle che oggi vanno di moda, dedite alle grandi cause, il socialismo, il femminismo, la pace universale. Io vivo per me stessa e per mia sorella, e mi sta bene così. C’è chi nasce con troppe vocazioni – scrittrice, moglie, ornamento della società – e chi con nessuna. Bè, a dire il vero una ce l’avevo. Dopo la scuola Normale mi sarebbe piaciuto studiare medicina. Ma nostro padre, il direttore delle Regie Gabelle cavalier Ferdinando Invernizio, era un tipo all’antica, e per lui una medichessa era inverosimile quanto una donna Primo ministro. Gli dava già abbastanza grattacapi l’altra figlia, che si era fatta cacciare dalla scuola per avere scritto una novella scabrosa e poi non aveva più smesso.
Una sera, pochi giorni prima di morire, babbo mi chiamò al suo capezzale. «Devo parlarti di Carolina», biascicò sotto i baffoni bianchi. «Ho molta paura per lei. Quella mania di scrivere la rovinerà…».