Il capitalismo di Stato se la passa malissimo, quello privato non sta tanto bene. Dovendo fare una sintesi che tenga tutto, questa è la considerazione che viene. Punte di diamante ce ne sono poche, mediocrità troppe nel sottobosco dove deep state, faccendieri, parolai e aspiranti boiardi allignano. Giorgia Meloni ci mette buona volontà, ma nonostante il suo maniacale piglio accentratore alla fine è costretta a fidarsi dei suoi. Errore esiziale. Se solo sapesse la goffaggine e imperizia con cui si muovono ci penserebbe due volte prima di fidarsi.
Ita, come farsi sfuggire un’occasione da quasi 900 milioni
Nei suoi quaderni a quadretti dove come una diligente scolara annota tutto, la premier alla voce partite in sospeso ha due appunti in evidenza. Uno riguarda la vendita di Ita, ossia ciò che resta della vecchia Alitalia. La vicenda l’ha ereditata dal governo precedente che l’ha gestita con i piedi, lasciandosi sfuggire un’offerta da quasi 900 milioni di euro, con Lufthansa e la maggioranza in mano a un imprenditore italiano, Gianluigi Aponte, tra i pretendenti (offerta buona anche per soddisfare la narrativa berlusconiana che non ha mai contemplato la perdita di italianità della compagnia). L’altro riguarda la rete Tim, la dorsale infrastrutturale che governa le comunicazioni del Paese. Un patrimonio su cui Palazzo Chigi. aò momento senza riuscirci, il tricolore lo vuole impiantare. Adesso è controllata dai francesi di Vicendi e ha in pancia un fondo americano che non nasconde le sue ambizioni di recitare da protagonista.

Perché il governo Draghi ha rifiutato l’offerta italo-tedesca?
Ma cominciamo con ordine, dalla partita più costosa per i contribuenti che nel corso degli anni hanno bruciato più di 13 miliardi dei loro soldi. E ancora rischia di bruciarne perché (si chiami Alitalia o Ita) per continuare a volare occorrono continue iniezioni di capitale. Prima però la risposta al quesito di cui sopra. Perché il governo Draghi ha rifiutato l’offerta italo-tedesca che lo avrebbe sgravato da ulteriori emorragie di denaro? Arroganza, incompetenza, interessi particolari di chi intendeva prolungare il gioco a perdere? Perché Alitalia negli ultimi anni non era più un’azienda, ma una greppia dove hanno mangiato manager, notabili, partiti e correnti dei partiti. E ogni volta si cambiava tutto per non cambiare niente, visto che i gattopardi vi piazzavano uomini che non facevano altro che interpretare il loro desiderio di lasciare tutto com’era. Sapendo che il buon cuore di Pantalone pagatore non avrebbe mai lesinato i mezzi.

Ora i tedeschi offrono 200 milioni per il 40 per cento
Meloni arriva al governo e si trova di fronte al disastro. Che fa? Mette un uomo di sua fiducia al vertice di Ita e gli chiede di vendere quanto prima. Antonino Turicchi si dà subito da fare, ma capisce al volo che i soldi che solo un anno prima lo Stato poteva incassare sono una chimera. Lo dice alla premier la quale, in un tentativo estremo, chiama Aponte chiedendogli di far rientrare la sua Msc nella partita. «Anche no, grazie», è la risposta dell’armatore. Non restano dunque che i tedeschi i quali, non avendo l’anello al naso e sapendo bene l’urgenza del venditore, offrono 200 milioni per il 40 per cento. E li fanno calare sui tavoli del Mef, il padrone della compagnia, come fosse per loro una grazia ricevuta.

Qualcuno deve pagare le conseguenze del danno erariale
Amorale della favola: la firma al contratto di compravendita non c’è ancora, è imminente da un paio di mesi. Anche perché nel frattempo succedono cose, e Lufthansa vuole vederci chiaro sulla miriade di cause di ex dipendenti che incombono sul dossier. E su quelle che arriveranno perché, nella fossa di serpenti che era diventata la compagnia, qualcuno aveva dato mandato a una società di investigazione di spiare telefoni e posta elettronica di alcuni dirigenti che si sono rivolti al Garante della privacy, preludio di possibili pesanti azioni legali. Tirando le somme: l’80 per cento di Ita poteva essere venduto l’estate scorsa a 900 milioni di euro. Un anno dopo, se va bene, il 40 per cento verrà ceduto a 200 milioni. Mai sentito parlare di danno erariale? E chi dovrebbe pagarne le conseguenze? Noi un’idea ce la siamo fatta, l’attuale governo non sappiamo.
Tim e la missione di statalizzarla senza fare i conti coi francesi
Capitolo secondo, Tim. Tragicomico, se non ci fossero di mezzo 40 mila dipendenti e una società imprescindibile per lo sviluppo tecnologico del Paese. Qui i meloniani danno il meglio di sé, mostrando anche uno zelo che si spiega solo con il fatto che mentre era ancora in campagna elettorale la futura inquilina di Palazzo Chigi sull’ex monopolista era stata perentoria: la rete deve essere statalizzata, il resto è noia. Via dunque alla corsa tra ministri, sottosegretari, capi di gabinetto, portaborse, banchieri vogliosi di accreditarsi con i nuovi padroni della politica, per portare Tim a Giorgia su un vassoio d’argento. Ovviamente, siccome millantare non costa nulla, all’indomani della vittoria elettorale si moltiplicano dichiarazioni e interviste per dire che entro la fine del 2022 lo stato imprenditore avrebbe fatta sua l’infrastruttura. Poco importa che l’ex monopolista dei telefoni sia una società quotata, e dunque basti una parola di troppo per far andare il titolo sull’ottovolante. Poco importa che ci sia un azionista francese che ne possiede quasi un quarto del capitale, e il cui accordo è imprescindibile per qualsivoglia soluzione.

Butti, Urso e Giorgetti: in tre ci hanno capito poco fin qui
Il fuoco alle polveri lo dà il prode sottosegretario Alessio Butti, l’unico della compagine accreditato a capirci qualcosa, che si affida alla dea Minerva (così il nome del suo piano) per raggiungere lo scopo. Il politico comasco, un passato come consulente di tivù locali, si perde per strada mentre a occupare la scena arriva un altro campione dell’esecutivo, il ministro Adolfo Urso, per il quale prendere la rete sembra una passeggiatina di salute. Last but not least il collega Giancarlo Giorgetti che, come al solito, tronca, sopisce e non si sbilancia. Salvo alla fine dove, nel giorno in cui lo ieratico Urso invita a non disturbare gli azionisti, se ne esce con una sorta di abbracciamoci tutti (Vivendi, Kkr, e una svogliata Cdp che di suo se ne resterebbe volentieri fuori), Macquarie, capi di gabinetto e compagnia cantante) che ovviamente non porta da nessuna parte. Perché attorno al tavolo di Tim oramai si sono seduti in troppi, e con interessi più o meno confessabili e divergenti, per cui è fatica di Sisifo trovare la quadra. Dall’altra parte Vivendi aspetta sulla riva del fiume, irridendo al fatto che il piano più trasparente ed efficace che si poteva attuare per soddisfare le ambizioni del governo, ossia il delisting della società, è stato snobbato. Meglio percorrere le vie impervie che quelle facili, sia mai. Il tempo corre inesorabile, e con esso parcelle e intermediazioni.

Che ne sarà di Mediaset? La salute di Berlusconi preoccupa
Risultato: Tim è in balia di se stessa, il titolo in Borsa è oramai una penny stock, Meloni che ne aveva fatto un punto ineludibile del suo programma rischia sì di perderci la faccia, ma almeno sa con chi prendersela. A proposito di Vivendi, il colosso dei media ci viene buono per misurare lo stato di salute dell’altro capitalismo, quello dei privati. Perché i francesi sono anche soci rilevantissimi di Mediaset, che adesso si chiama Mfe MediaforEurope, con una partecipazione del 23 per cento che per accordi presi a sua tempo con Silvio Berlusconi avrebbe dovuto ridursi drasticamente, a patto che i corsi di Borsa consentissero di non perdere un pozzo di miliardi (ne hanno già bruciati 3 in Tim). Sta di fatto che il titolo non sale, e loro sono ancora lì. Mentre il Cavaliere, cui auguriamo tutti lunga vita, in salute non se la passa benissimo e sta da un mese al San Raffaele. Intanto Piazza Affari, che è il regno del cinismo (cosa che Maurizio Cattelan ha ben esplicitato con quel dito medio alzato di fronte a palazzo Mezzanotte), fa salire il titolo ogni volta che dall’ospedale milanese arrivano cattive notizie, o se non cattive meno buone.

Davvero impensabile un coinvolgimento di Urbano Cairo?
Insomma, il mercato ragiona già sui possibili destini post Berlusconi del Biscione, e fa i suoi conti. Così come anche i francesi, non foss’altro perché fanno lo stesso mestiere. E qui entra in gioco la notizia, bollata da entrambe le parti come una solenne bufala, del coinvolgimento di Urbano Cairo in quelli che saranno i futuri assetti del gruppo di Cologno Monzese. Fole, fantasie di menti fervide di scenari possibili. Ma sarebbe davvero impensabile una convergenza tra i francesi e il proprietario di Rcs e La7 per ridisegnare quegli assetti di Mediaset che una complicata partita ereditaria renderebbe contendibili? Lo scopriremo solo vivendo, anzi Vivendi. Al momento si può solo dire dello strabismo dei francesi, un occhio fisso su Tim, e l’altro su quel che succede a Milano.

E Cairo? Conoscendolo un po’, coronerebbe il sogno della vita: da giovane segretario di Berlusconi a nuovo padrone del suo impero mediatico, o quanto meno in una posizione di socio forte tale da neutralizzare nel passaggio di mano possibili golden power del governo. Anche se questo dovesse necessariamente comportare per il patron del Torino la perdita del Corriere della sera sulla cui eventuale destinazione, non mancando i pretendenti, ci si potrebbe sbizzarrire.
John e Lapo Elkann, che lite per le società di famiglia
A proposito, il quotidiano di via Solferino che sta in salute e veleggia al doppio delle copie del suo rivale la Repubblica, ci consente di dare un’occhiata a quel che sta succedendo dentro casa del suo editore John Elkann. Delle redivive dispute con la madre Margherita intorno all’eredità del nonno molto è stato detto. Molto meno invece della situazione tesa che si è creata tra i nipoti dell’Avvocato. Sussurrate a mezza bocca, girano indiscrezioni su una recente violentissima lite tra John e suo fratello Lapo, con il secondo che chiede di essere coinvolto nella attività di famiglia (il suo sogno, si sa, resta la Juventus di cui è tifoso sfegatato ma anche severo) e il primo che gli rinfaccia i disastri delle sue attività imprenditoriali che, tra Italian Independent e Garage Italia, gli sarebbero costate una quarantina di milioni. In più, complici gli strascichi della vicenda bianconera, ci sono i mal di pancia del cugino Andrea culminati nel clamoroso abbandono di tutte le cariche, Exor compresa, nelle società di famiglia. Quella Exor i cui rappresentanti, ed è questo che non va giù al figlio di Umberto Agnelli, gli hanno votato contro nel consiglio di amministrazione della Juventus che ha determinato le due dimissioni.

Jaki dopo Fiat e Ferrari venderà pure la Repubblica e La Stampa?
Sta di fatto che, forse anche per allontanarsi dall’aria pesante che si respira in famiglia, John ha assunto sempre più le movenze del grande finanziere internazionale che disdegna perché troppo angusto e litigioso il cortile di casa. In fondo ha venduto la Fiat ai francesi, la Ferrari non gli dà soddisfazioni, e i giornali (tranne l’Economist, rimarcabile biglietto da visita da sciorinare alla bisogna) sono fonte di preoccupazione con quel loro iconoclastico furore antigovernativo che avrebbe fatto saltare sulla sedia il nonno. Arriverà dunque anche a vendere la Repubblica e La Stampa? Intanto a essere venduta è la periferia della casa editrice. E se dalla due diligence che si concluderà entro fine mese non emergeranno sorprese, entro l’estate il pimpante Enrico Marchi metterà le mani sui quotidiani ex Finegil del Nord-Est. Stessa sorte toccherà più avanti al giornale fondato da Eugenio Scalfari e alla Busiarda? A Torino, per ora, dicono di no.