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Tre palle e un soldo

Gli insofferenti

Del Vecchio, Caltagirone, Cairo. Protocapitalisti che non sopportano le regole e l’autonomia dei manager. Con un solo credo: chi mette i soldi comanda. Anche se sbaglia.

17 Maggio 2021 18:1517 Maggio 2021 18:39 Paolo Madron
Del Vecchio Caltagirone Cairo: le guerre dei tre protocapitalisti

La guerra (perduta) di Urbano Cairo contro Blackstone, che a suo dire – ma non del collegio arbitrale che ne ha respinto la tesi – avrebbero scippato la storica sede del Corriere della sera a prezzi da usura (accusa che ha mandato ai matti gli americani). Quella di Francesco Gaetano Caltagirone contro le Generali, esplosa con la decisione del costruttore romano di non votare all’ultima assemblea il bilancio della compagnia. Ancora prima, l’affondo di Leonardo Del Vecchio su Mediobanca con il chiaro intento di liquidare l’autonomia dei suoi manager.

Guerre a bassa intensità che all’improvviso esplodono

C’è qualcosa che accomuna queste tre partite che stanno animando l’abbastanza quieto panorama del capitalismo privato? Molto. Innanzitutto si tratta, almeno sin qui, di guerre a bassa intensità. Sono in corso da tempo e hanno un andamento carsico: esplodono in prossimità di assemblee o rinnovi dei consigli d’amministrazione, poi scemano per continuare sotto la superficie visibile diventando guerriglia, ricettacolo di insoddisfazione e antipatie, impuntature che si traducono in sgarbi e ripicche. Il tutto accompagnato da schermaglie mediatiche che lasciano trasparire la mano dei mandanti. Fino alla vigilia della prossima assemblea, del prossimo rinnovo delle cariche, del prossimo incidente che fanno da moltiplicatore dei microconflitti. Un’altra caratteristica comune è che i protagonisti di queste guerre sono dei protocapitalisti. Detto più semplicemente, dei padroni vecchio stile, accentratori, diffidenti, dunque poco inclini a delegare tanto più a chi non mostra sudditanza.

Le azioni si contano, non si pesano

Amano, come padron ‘Ntoni dei Malavoglia, accumulare “la roba”, godono nel possederla, nello specchiarvisi, nel coccolarla. Sono dei Citizen Kane senza averne la dilaniante tragica grandezza. E ovviamente pensano che chi ci mette i soldi debba comandare. Rifuggono, vedendola come fumo negli occhi, la vecchia idea (copyright Enrico Cuccia) che le azioni si pesano ma non si contano. Ovvero il postulato che ha retto per decenni quello che viene comunemente chiamato capitalismo di relazione, dove i legami prevalgono sulla ricchezza, l’intelligenza sul campo ai diritti dell’appartenenza. Per loro separare la gestione dalla proprietà è come bestemmiare in chiesa, una insana e inaccettabile aberrazione. Il credo che professano ha un solo comandamento: chi ha i soldi ha vinto. Sempre e comunque. Qui però i destini e gli atteggiamenti dei nostri protocapitalisti si differenziano. Prendiamo Cairo, cui fu consegnata da Banca Intesa una delle storicamente più tribolate aziende italiane, e che ora la governa forte di due cose: il possederne la maggioranza assoluta delle azioni, l’averne ridotto in questi anni e di molto l’enorme indebitamento che aveva quando arrivò nelle sue mani. Cosa che, sicuramente, non è avvenuta, come sostengono le malelingue, solo perché ha il braccino corto e non paga i fornitori, ma per un lavoro di ristrutturazione e taglio dei costi superflui in cui l’ex assistente di Silvio Berlusconi eccelle.

le guerre dei protocapitalisti italiani Cairo caltagirone del vecchio
Urbano Cairo (Getty Images).

Traditi dalla voglia di strafare

A un certo punto però è stato tradito da se stesso. In particolare, da quell’avidità che è uno dei motori del successo del protocapitalista, ma che spesso è anche causa del suo male. Ci riferiamo, appunto, alla lite con Blackstone. Che il fondo nel 2013 abbia acquistato il palazzo di via Solferino a un prezzo particolarmente vantaggioso era evidente fin da allora. Quello che non lo era affatto, e che Cairo ha tentato invano di sostenere, è che gli americani avessero preso per la gola come dei volgari strozzini il venditore. Il presidente del Torino avrebbe dovuto prendere atto, rassegnarsi e voltare pagina. Limitandosi, l’irrompere della pandemia lo avrebbe poi in questo aiutato, a ridiscutere l’obiettivamente esoso canone di affitto. Avrebbe potuto spostare anche la redazione del Corriere a Crescenzago, ma in questo l’opposizione dei giornalisti ha trovato in lui un convinto interprete. Il protocapitalista ama i simboli che rendono lustro al suo potere: progettato da Luca Beltrami all’inizio del Novecento, riammodernato da Gregotti un secolo dopo, il palazzo è la Xanadu degli editori che vi si sono succeduti. E qui torna fuori l’indole del protocapitalista, che non si accontenta e vuole tutto. Anche a costo di spingersi in battaglie di cui non è difficile in partenza prevedere l’esito nefasto.

L’autonomia dei manager è considerata un affronto

Diverso il caso di Caltagirone e Del Vecchio. Partiamo dal primo. Colpisce che l’ingegnere abbia messo nel mirino una gestione delle Generali che gli potrà essere più o meno congeniale, ma che non ha mancato di regalargli soddisfazioni in termini di rendimento sul capitale. Cosa lo tormenta dunque? Una sola cosa: che la magnitudine del suo investimento non si traduce in quel potere che in virtù di essa a suo dire meriterebbe. L’ingegnere non sopporta che a comandare sia Mediobanca, ovvero dei semplici manager, e condivide quel che pensava un altro protocapitalista molto visionario, Raul Gardini quando liquidò l’ingerenza di piazzetta Cuccia nelle sue vicende con un perentorio e sprezzante: «Io ai banchieri pago solo le commissioni». Nella sua azione di disturbo contro Trieste, Caltagirone adotta la tattica dell’incursore: mette nel mirino dirigenti della compagnia ottenendone talvolta la testa, non perde occasione per criticare le strategie del capoazienda, si tratti dell’acquisto di una società in Malesia o dell’ingresso in quel campo minato che era la Cattolica assicurazioni. Poi si ferma e misura l’effetto del suo blitz. Una posizione che sicuramente anche Del Vecchio condivide (ma i due fanno meno comunella di quel che si vuol fare credere all’esterno), con in più l’aggiunta di un particolare tratto caratteriale. Il patron di Luxottica non sopporta che qualcuno si metta di traverso ai suoi piani, lo prende come un’offesa personale, un intollerabile sgarbo. Questo spiega perché l’oramai lunga guerra con Mediobanca si partita da un episodio apparentemente secondario: la controversia per il controllo dello Ieo, l’istituto europeo di oncologia fondato da Umberto Veronesi, una delle imprese cui Cuccia e il suo delfino Vincenzo Maranghi tenevano moltissimo. Il fatto che i custodi del loro retaggio non gli abbiano lasciato campo libero ha scatenato la ritorsione su Mediobanca, con un blitz che lo ha fatto diventare il primo azionista. Ma comprare una banca non è come acquistare una qualsiasi azienda, non ci sono solo manager da vincere ma anche autorità di controllo, nella fattispecie la Bce, e regole che non si possono trasgredire.

L’ira di Del Vecchio e la vicenda Ieo

Per inciso, strade che si incrociano, nella querelle per conquistare lo Ieo è entrato anche Cairo, che ha venduto senza colpo ferire la partecipazione di Rcs (guarda caso proprio a Del Vecchio) staccandosi anche una personale lauta commissione. Come si vede, per arricchirsi il protocapitalista non lascia nulla di intentato, compreso farsi pagare come advisor di se stesso. Storie di padroni, di spiriti animali feriti, di slanci frustrati e insofferenza verso vincoli e autorità che ingabbiano il sacro diritto proprietario ergendosi a tutela del mercato. Diceva Cuccia che quello italiano era un capitalismo senza capitali, e all’ombra della sua teoria è allignata qualche convenienza di troppo, al punto che ci sono stati padroni che hanno comandato sulle loro aziende possedendone appena un pugno di azioni. Ma sempre e comunque insofferenti verso lacci e lacciuoli che non consentivano loro di godere liberamente della propria ”roba”.

Tag:Potere
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