Reddito di cittadinanza: estratto di Caccia al nero, confessioni di un insider della tv populista
«"La gente se ne sta a casa perché ha il sussidio", così ti deve dire il tizio, ok?». I dietro alle quinte della tv populista raccontati da un insider in Caccia al nero edito da Chiarelettere. Un estratto.
Caccia al nero. Confessioni di un insider della tv populista è il racconto (in forma anonima) della quotidiana manipolazione dell’informazione nei programmi di una certa tv, tema tutt’altro che secondario alla vigilia di quelle potrebbero essere saranno le elezioni più divisive degli ultimi decenni. Il libro, edito da Chiarelettere, uscirà il 13 settembre.
Il racconto del dietro le quinte della tv populista
Un ex giornalista di una delle trasmissioni di punta di una grande televisione commerciale ha voluto raccontare e mettere nero su bianco la sua esperienza, rivelando tutti i particolari del dietro le quinte dei servizi: campagne di odio e razzismo costruite a tavolino, realtà distorta e presentata in maniera così artificiosa e stereotipata da risultare grottesca ma che, nonostante tutto, porta ad ascolti da record, piazze “ammaestrate” e infine un sottobosco di autori, attori e conduttori senza scrupoli, ma anche di giornalisti che ogni giorno fanno i conti con la propria coscienza. Tag43 vi propone un estratto del libro sul reddito di cittadinanza.

Il Reddito di cittadinanza
Era entrato in vigore il reddito di cittadinanza, e la cosa evidentemente non andava bene. Me lo comunicò Gigi, al telefono. «Hai capito la storia?», mi disse. «Questi se ne stanno a casa in pantofole a pigliarsi i soldi, no? Cioè, si pigliano i soldi per non fare un cazzo, ti pare?». A me la questione sembrava più complessa, ma era il mio primo servizio e mi guardai bene dall’obiettare. «Ci facciamo un’inchiesta», sentenziò prima di mettere giù. Trascorsi le ore seguenti a divorare articoli di economia. Fare un’inchiesta sul reddito di cittadinanza mi sembrava un compito arduo, tanto più che l’argomento mi era quasi del tutto oscuro. Avrei dovuto documentarmi, era chiaro, e non sapevo neppure da dove partire. Che tipo di lavoro mi sarebbe stato richiesto? C’erano da sentire degli esperti, oppure dei politici? Non ne avevo la benché minima idea, e la cosa mi metteva non poco in agitazione.
Verso sera mi arrivò un messaggino su WhatsApp. C’era soltanto un link, che rimandava a un breve articolo di giornale: Palermo, imprenditore cerca dipendenti a 3 mila euro al mese. «Colloqui deserti, nessuno vuole rinunciare al reddito». Non conoscevo il mittente, ma la testata dove era stato pubblicato il pezzo era un foglio di destra noto per i titoli urlati e l’aggressività di molte sue firme. Il testo del servizio era piuttosto scarno: c’erano giusto un paio di virgolettati, certamente raccolti al telefono, cui facevano seguito alcune cupe considerazioni su come l’assistenzialismo statalista avrebbe finito col gettare sul lastrico l’onesta classe imprenditoriale di questo Paese. Stavo ancora finendo di leggere, quando il misterioso mittente mi fece di nuovo squillare il telefono. Questa volta, però, era una chiamata. «Ciao caro, ti ho mandato la tua inchiesta», squittì allegra una voce di donna. «Facile facile, per cominciare. Ah… e di’ un po’, sei contento che non ti mandiamo dagli zingari?». Il primo pensiero volò a Gigi, che doveva aver irriso le mie stravaganze umanitarie davanti a mezza redazione. Poi i convenevoli: il mio interlocutore si chiamava Ginevra ed era la capoautrice della trasmissione. La sua voce, dallo spiccato accento romano, suonava ferma e sbrigativa. Anche lei – come avrei scoperto – aveva bazzicato a lungo in alcune testate di sinistra. Sui social avevamo molti amici in comune, diversi dei quali non perdevano occasione per attaccarla apertamente ogni volta che pubblicava un post sulla nostra trasmissione. Le sue risposte erano assai più aggressive del dovuto e, leggendole, mi avrebbero fatto una gran tenerezza.
Ma a questo ci sarei arrivato solo in seguito. Ora quello che Ginevra voleva da me era un servizio sul reddito di cittadinanza, letto attraverso la prospettiva del peggior fogliaccio reazionario che si potesse trovare in un’edicola. Il fatto, poi, che continuasse a ripetere la parola «inchiesta» rendeva la nostra conversazione addirittura paradossale. «Cioè, vuoi proprio che racconti in video quello che c’è nell’articolo?», azzardai. «Non vogliamo pescare anche qualche statistica, magari qualche altro caso?». «Le statistiche sono cose astratte», tagliò corto lei. «Il nostro non è un pubblico da statistiche. Noi raccontiamo la vita reale, non le statistiche. Tu vai e tira fuori quello che c’è nell’articolo. Fai vedere che questi non vogliono lavorare, magari faglielo pure dire, se ci riesci. Poi torni qui e facciamo il montaggio. Hai capito?». Avevo capito, e la cosa mi piaceva sempre meno.
L’azienda si occupava di autotrasporti e stava effettivamente incontrando difficoltà ad assumere camionisti. Era l’unico dato chiaro contenuto nell’articolo, ma il guaio è che era anche l’unico esatto. Lo scoprii la mattina dopo, quando telefonai al titolare della ditta per fissare un’intervista. Al numero del centralino rispose direttamente lui. Era un uomo dal forte accento siciliano, che doveva aver trascorso la vita a guidare autoarticolati ed era abituato a non perdere mai di vista il nocciolo delle questioni. «Ma ca rèdditu e rèdditu», mi disse senza troppi fronzoli. «L’unico problema qui è pigghiari la patente…». L’equivoco fu presto chiarito: non è che i lavoratori preferissero starsene a casa con 500 euro di sussidio piuttosto che pigliarne tremila faticando, erano operai, mica imbecilli. Il fatto è che per guidare il camion serve la patente C, e la patente C costa un occhio della testa. Semplicemente, molti disoccupati non potevano permettersela. Perciò, dopo aver inviato il curriculum, finivano col fare marcia indietro, ritirando la propria candidatura. Il reddito di cittadinanza, checché ne scrivesse il collega, c’entrava poco o nulla.
La scoperta mi ringalluzzì di colpo. Avevo smascherato una falsa notizia, e per farlo mi erano bastati dieci minuti di telefonata. Credevo di meritarmi perlomeno una pacca sulle spalle, invece non avevo ancora capito nulla. Ginevra, quando la richiamai, fu persino più brusca del giorno prima. «Non ci interessano le patenti» sibilò. «Non stiamo facendo una puntata sulle patenti. A noi interessa il reddito di cittadinanza». La sua voce era addirittura stizzita: «Vuoi fargli dire delle patenti? Va bene, faglielo dire. Ma il pezzo deve chiudersi con la storia del reddito. “La gente se ne sta a casa perché c’è il reddito”, così deve dire il tizio. Deve dire come c’è nell’articolo, okay?». Mi sentii un bimbo scemo che fa le bizze per non andare a scuola. Col tempo ci avrei fatto l’abitudine.
C’era un aereo di linea che sorvolava il Tirreno, e là sopra c’ero io, seduto nelle prime file, con davanti un drink analcolico ancora intonso. Ero stanco, con gli occhi gonfi di chi non ha dormito per tutta la notte. I dubbi mi assillavano: cosa dovevo fare? Che in quell’articolo si dicesse il falso era chiaro, chiunque avrebbe potuto verificarlo. Lo avevo riletto almeno venti volte, mettendolo mentalmente a confronto con le parole dell’imprenditore palermitano. Forse gli autori non si fidavano di me? Il tono di Ginevra sembrava suggerire qualcosa del genere: mi aveva trattato né più né meno come uno sprovveduto. Avrei dovuto insistere? Essere più persuasivo? Ormai mi trovavo a 8 mila metri di quota, diretto verso la Sicilia, e quelle che mi stavo ponendo erano chiara- mente delle domande retoriche.
Eppure non potevo fare a meno di tormentarmi. Prima di decollare avevo fatto un ultimo tentativo con Gigi, nei cui confronti mi sembrava di poter nutrire perlomeno un minimo afflato di sintonia. Lo avevo chiamato e gli avevo raccontato tutto, astenendomi con prudenza da qualsiasi commento. Ero certo che i fatti, messi in fila così com’erano, sarebbero bastati a darmi ragione. Gigi, a differenza della sua collega, mi aveva se non altro lasciato parlare. «Eh sì, Ginevra a volte è un po’ stronzetta», aveva ridacchiato nel ricevitore, abbassando la voce con fare cospiratorio. «Vedi però… io ho qui davanti il copione e il pezzo tuo è proprio quello che ti ha spiegato lei. Reddito di cittadinanza, come ti dicevo ieri mattina. Mi sembra abbastanza chiaro, no?». Per un attimo avevo avuto la tentazione di gridare. Sarebbe bastato pronunciare una semplice parola – «falsità» – per spezzare bruscamente l’incanto e ricondurre l’intera faccenda su un piano razionale, ne ero sicuro. Ma sarebbe stato come dare del ladro di portafogli al proprio caporedattore, e chi ce l’ha il coraggio? Così mi ero rassegnato a conservare i miei dubbi, che a quel punto appartenevano soltanto a me. Ormai ero stato risucchiato dal meccanismo, qualunque esso fosse, e il fatto che mi trovassi seduto su quell’aereo ne era la dimostrazione lampante: ero salito sulla bicicletta, adesso mi toccava pedalare. Restava il problema più grosso: portare a casa il servizio così come mi era stato commissionato.
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