Chi è Bumzu, il produttore di alcuni degli artisti più noti del K-Pop

Camilla Curcio
24/02/2022

Tra i producer più apprezzati della scena musicale sudocoreana, Bumzu è uno dei pezzi da novanta di un business prezioso per l'economia del Paese. Il suo profilo.

Chi è Bumzu, il produttore di alcuni degli artisti più noti del K-Pop

Dietro al successo di un cantante o di una band, c’è sempre il lavoro di un bravo produttore. Ne è un esempio lampante Kye Beom-joo, in arte Bumzu, uno dei producer più influenti dell’industria del K-pop e autore di canzoni che, in poche settimane, hanno scalato i ranking internazionali e invaso i social, accaparrandosi un posto d’onore nell’Olimpo delle hit. 

Chi è Bumzu, uno dei produttori più noti della scena pop sudcoreana

Trent’anni, una carriera da solista alle spalle, Bumzu vanta nel suo curriculum numeri da record. Il brano Super Tuna, cantato da Jin, uno dei componenti della boyband BTS, ha macinato oltre 53 milioni di visualizzazioni su YouTube da dicembre e, su TikTok, l’hashtag #SuperTuna si è riempito di clip di content creator impegnati a replicare una coreografia creata appositamente per una challenge. Ma non è tutto. I Seventeen, gruppo che ha seguito sin dagli esordi, hanno venduto più di 10 milioni di copie del loro album e portato ben quattro brani al numero uno della classifica Billboard mondiale. Traguardi che gli hanno permesso di farsi conoscere e di lavorare anche con altri grandi nomi del business come Shinee, Rain e Nu’est. «Devo essere sincero, sento parecchia pressione addosso», ha raccontato in un’intervista al Guardian. «Ci sono volte in cui l’ansia da prestazione mi consuma ma so che, senza questa spinta, non avrei la forza di impegnarmi tanto quanto sono abituato a fare per raggiungere gli obiettivi che mi prefiggo».

Da piccolo prodigio a testa di serie del business del k-pop

Nato a Seul e da sempre circondato da beat e melodie, a cinque anni sapeva già suonare il violino e comporre musica e parole. A spingerlo, seppur inconsapevolmente, verso la produzione è stato il fratello maggiore che non gli permetteva di toccare software e macchinari per paura che li rompesse. Così, stimolato da quel divieto, ha iniziato a lavorare part-time per mettere da parte qualche soldo e comprare tutto l’occorrente da solo. I suoi primi lavori, creati semplicemente con un pc e un programma professionale, viravano quasi tutti sul visual kei, un mix di glam rock, metal e punk famoso in Giappone a cavallo degli Anni 80. Poi, innamoratosi dell’hip hop e dell’R&B, ha iniziato a ideare delle basi e a cantare ispirandosi allo stile di Boyz II Men e Brian McKnight. Fino a diventare parte attiva della scena musicale underground. «Allora lo chiamavamo underground. Oggi, molte delle persone che facevano quel tipo di musica, lavorano nell’ambiente del K-hip hop. Anche le etichette sono cambiate per stare al passo coi tempi».

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Dopo una discreta carriera da cantante spinta dalla partecipazione a un talent e dall’uscita di un EP, si è lanciato sul vocal coaching ed è stato proprio grazie a questa nuova direzione che ha incontrato una squadra di giovani talentuosi e desiderosi di emergere. Quelli che, qualche anno dopo, sarebbero diventati i Seventeen e per i quali avrebbe firmato la hit d’esordio, la celebre Adore U: «Mentre scrivevo, ho sin da subito capito che quella canzone sarebbe stata un ottimo biglietto da visita», ha aggiunto, «E, riflettendoci, devo dire che mi ha aiutato tanto a capire la mia cifra stilistica e a lavorarla al meglio».

La storia di Bumzu, uno dei produttori più celebri della scena k-pop
La boyband Seventeen (Getty Images)

Tra sessioni solitarie in studio e brainstorming collettivi

Sebbene buona parte della sua giornata sia dedicata alla scrittura, alle sessioni in studio e ai meeting, Bumzu fa di tutto per non rinunciare alla costante interazione coi colleghi, gli artisti e le etichette discografiche. Un elemento che reputa imprescindibile. «Viviamo nell’era della collaborazione e della comunicazione aperta, nessuno può farcela da solo», ha puntualizzato. «Per brillare abbiamo bisogno di un team e dei consigli di chi, magari per esperienza, ne sa più di noi». Nel suo metodo di lavoro non esiste una tabella di marcia precisa, l’unica costante è dare a ciascun brano un suono unico: «Tutto inizia e finisce con l’ispirazione, che può arrivare da qualsiasi cosa e in qualsiasi luogo», ha concluso. «Talvolta parto dalle note, talvolta da un pensiero o una parola. O, addirittura, da un gesto, un movimento casuale che mi affascina. Il risultato finale, in ogni caso, rimane lo stesso: regalare all’artista uno strumento per esaltare i suoi colori e la sua personalità, senza mai appiattirlo. Siamo sulla stessa barca: il trionfo del singolo è il trionfo del gruppo. Remiamo tutti verso la stessa direzione».

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Alle origini della K-mania

A oggi, il boom del K-pop rimane un unicum. Da un momento all’altro, un genere prettamente di nicchia si è ritrovato a essere il traino di un fenomeno culturale che, agli occhi del Paese, è diventato sin da subito uno dei suoi asset più preziosi, con fatturati che, solo nel 2020, hanno sfiorato gli 11 miliardi di dollari. Tra film, serie tivù, prodotti beauty e gastronomia, la cosiddetta Korean Wave ha letteralmente travolto il mondo, trasformandosi in un prezioso strumento di soft power politico e prestando, spesso, il fianco all’attivismo, soprattutto nel contesto delle battaglie per la tutela dei diritti umani e contro il cambiamento climatico. Eppure, ancora oggi, Bumzu non riesce davvero a individuare la miccia che ha scatenato quest’inaspettato exploit. «Non credo si possano definire i fattori che hanno generato il successo del k-pop», ha sottolineato, «Noi non facciamo altro che fare musica che arrivi dritta al cuore e che emozioni chi la ascolta».

La storia di Bumzu, uno dei produttori più celebri della scena k-pop
La boyband BTS (Getty Images)