Buio in sala

Martina Gaudino
18/05/2021

La riapertura dei piccoli cinema ha lanciato un segnale. Ma non basta. La strada per tornare alla normalità è ancora lunga. E i distributori devono fare i conti con tv e piattaforme streaming.

Buio in sala

Ciak, si è riaperto. Ma la strada per tornare ai numeri pre-pandemia è ancora in salita. La chiusura dei cinema «è stata un deserto molto lungo da attraversare», ha spiegato il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini aprendo il galà per il David di Donatello. Soprattutto con «macchine al 50% della capienza». Ora si cerca di ripartire davvero. Anche con i 300 i milioni di euro del Recovery Plan destinati in buona parte a raddoppiare gli studi di Cinecittà in modo da attirare un maggior numero di produzioni, italiane europee e internazionali. Ma fare film non basta. O, almeno, non salva tutti. Con il lockdown, il pubblico è stato costretto a trasferirsi sulle piattaforme streaming, dalle poltrone in sala a quelle del salotto di casa. Il rischio ora è che quella che è stata una necessità diventi un’abitudine (e lo stesso vale per i teatri).

La riapertura simbolica dei piccoli cinema non basta

Le aperture delle piccole sale, come il Nuovo Sacher di Nanni Moretti a Roma o i cinema d’essai delle grandi città (vedi il Beltrade a Milano), sono state più un messaggio di speranza che altro. Lo confermano i numeri. Dopo l’annus horribilis in cui le sale hanno registrato un incasso totale di 182 milioni di euro con un decremento rispetto al 2019 (quando gli incassi furono di 635.449.774 euro) del 71,3%, la riapertura del 26 aprile – parziale in quanto tantissimi cinema e multisala hanno deciso di rimandare – non ha coinciso con una vera ripartenza. Nella settimana dal 3 al 9 maggio, stando ai dati Cinetel, si sono registrate meno di 95 mila presenze. Un dato che, se malauguratamente dovesse mantenersi costante fino a fine anno, porterebbe in sala meno di 5 milioni di italiani. Nel 2019 erano stati circa 98.

Le perdite per i distributori riguardano film acquistati prima della pandemia e che non sono stati commercializzati

Va però detto che molto, anzi moltissimo, dipende dai film in programmazione. Come spiegato a Tag43.it da una fonte nel settore della distribuzione, quelli che abbiamo in mano sono «numeri falsati in quanto in sala non ci sono grossi titoli al momento». A rischiare di più sono gli esercenti in quanto «i distributori, seppur danneggiati, stanno comunque risparmiando sulle campagne pubblicitarie per il lancio dei film». In sostanza, i soldi che il settore della distribuzione sta perdendo, le cui stime al momento non sono quantificabili, «derivano dai tanti titoli che sono stati acquistati prima della pandemia, film molto dispendiosi come per esempio Tre piani di Nanni Moretti». Film del genere «sono costati molto in distribuzione e coproduzione senza che la vita commerciale sia mai iniziata».

Per il presidente della sezione distribuzione di Anica, Luigi Lonigro, «bisogna ripartire riallacciando al più presto il filo emozionale che lega gli spettatori italiani alla sala cinematografica e al consumo del cinema sul grande schermo». Un filo emozionale che per quanto romanticamente lo si voglia vedere ha però un costo. I distributori, è il ragionamento di chi lavora nel settore, «hanno accordi pregressi con le piattaforme online. Tanti film sono passati al cinema dopo essere stati trasmessi su Netlifix. È falso pensare che ci sia una volontà dei distributori a non andare in sala, vogliamo che il cinema torni a essere cinema, ma chi perde veramente, fino all’80% degli introiti, è l’esercente».

La concorrenza con la tivù e le piattaforme streaming

Per tornare alle grandi piattaforme, basta pensare ad Amazon che nell’ultimo anno ha puntato su numerosi film italiani, soprattutto commerciali. I distributori, continua chi lavora nel settore, «prendono in carico un film e lo rivendono per tutti i diritti di sfruttamento: cinema, tivù, webtv e così via. Se un film quando va in sala fa un certo numero di presenze, Sky o la Rai lo comprano per mandarlo in prima o seconda serata a un certo prezzo; se fa un più basso numero di spettatori, quel prezzo scende». Se un distributore ha nel listino film commerciali e altri d’autore, può in qualche modo sfruttare il traino dei film più “forti” «per vendere l’intero pacchetto che magari comprende due grandi film, alcuni un po’ più deboli, uno di nicchia». È a questo punto che le dimensioni fanno la differenza. «Se sei un distributore piccolo con un piccolo film indipendente, punti su quello per andare in sala e vieni penalizzato perché se nessuno o quasi va al cinema, non hai modo di essere appetibile per la tivù o per le piattaforme». Oltre che per gli esercenti, anche per questi piccoli distributori, la fila davanti a un cinema è vita. Anzi, sopravvivenza.