Bridgerton, errori e anacronismi nella rappresentazione dell’Asia Meridionale
Protagonisti della seconda stagione di Bridgerton sono gli Sharma, una famiglia indiana degli inizi del 19esimo secolo. Nel rappresentarne la storia, tuttavia, gli sceneggiatori non sono riusciti a evitare inesattezze e anacronismi. Ecco quali.
Quando, lo scorso anno, Bridgerton è approdato su Netflix, gli spettatori hanno capito dal primo minuto che non avrebbero avuto a che fare con un period drama canonico. Nella scrittura della serie, ambientata nell’epoca della Reggenza Inglese, la regista Shonda Rhimes si era concessa totale libertà creativa e, al contrario di prodotti come The Crown, la totale aderenza al racconto storico non figurava tra le priorità. Tra i pezzi di punta della colonna sonora spiccavano cover di pop star contemporanee come Ariana Grande, la regina d’Inghilterra era interpretata da un’attrice di colore e la storia d’amore tra il Duca di Hastings e Daphne Bridgerton era il fulcro attorno al quale gravitavano tutte le altre trame. Oltre che l’elemento che ha contribuito a rendere il prodotto il più visto della piattaforma, trasformandolo in un fenomeno di costume. Tutto ciò, nonostante errori e anacronismi più o meno visibili nelle storyline e nei personaggi. Un vulnus che, nella seconda stagione, sembra essersi fatto ancora più evidente agli occhi dei critici e dei fan più attenti.
https://www.youtube.com/watch?v=jSCxJxLfOUo
Le Sharma rubano la scena nella seconda stagione di Bridgerton
La seconda parte della storia, ormai disponibile on demand da qualche settimana, gira attorno a una famiglia indiana di inizio 19esimo secolo: gli Sharma. Mary e le figlie, Kate ed Edwina, incarnano un concetto di nobiltà decisamente lontano rispetto a quello dell’alta società britannica. Sono delle outsider: Mary ha sposato un impiegato d’estrazione sociale più bassa rispetto alla sua e lo ha seguito fino in India, lontano dalla disapprovazione dei parenti. Kate non è nata dal loro amore ma da una relazione precedente. E l’unica a poter risollevare le sorti della loro reputazione pare essere Edwina, la secondogenita.

In effetti, sarà proprio la ricerca di un ricco corteggiatore inglese per la giovane nobildonna a spingerle a ritornare a Londra dopo la morte del capofamiglia e a tentare il tutto per tutto per rimettersi in carreggiata. Peccato che le cose prendano una traiettoria diversa da quella immaginata: a essere coinvolta in una relazione che, alla fine, si rivelerà molto più motivata dall’amore che dal desiderio di acquisire un certo status sociale, sarà la primogenita, protagonista di una narrazione degna di Jane Austen, fatta di sguardi rubati, sentimenti proibiti e segreti da proteggere.
Gli errori nella rappresentazione della cultura dell’Asia Meridionale
Quello che, tuttavia, risulta spesso distonico è il tentativo degli sceneggiatori di proporre una rappresentazione che, nel nobile tentativo di esaltare l’inclusività e la diversità, finisce con l’offrire al pubblico un ritratto storicamente e culturalmente inaccurato. Sul Guardian la giornalista Ankita Rao ha sottolineato come, agli occhi di una persona minimamente esperta in materia, l’immagine della famiglia Sharma risulti parecchio lontana dal modello predominante in Asia Meridionale. Il loro cognome rimanda all’India settentrionale, in particolare alle classi alte della società, ma le ragazze chiamano il padre Appa, usando un’espressione tipica della lingua Tamil, diffusa a sud del Paese e in Sri Lanka.
So #bridgertonS2 casts two South Asian women in major roles, gives their characters the last name Sharma, they supposedly speak Marathi and Hindustani but they call their father ‘appa,’ and the older sis calls the younger one ‘bon.’
Confused much? #bridgerton pic.twitter.com/668uGsM4uN
— Sunny Singh (@ProfSunnySingh) March 26, 2022
Rimanendo sempre sulla questione linguistica, le tre donne parlano Marathi e Hindustani, idiomi che potrebbero adattarsi benissimo al fatto che hanno vissuto a Bombay ma Kate si riferisce spesso a Edwina col termine ‘bon’, l’equivalente bengalese di ‘sorella’. Una confusione che si ritrova anche nella messa in scena delle tradizioni, come quella del tè: Kate disdegna quello inglese e opta per una sorta di chai, che non prepara mettendo in infusione tè nero e spezie ma versando dell’acqua calda sulle foglie.
Andare a caccia dell’errore o provare ad accettarlo in nome dell’intrattenimento
Il risultato di quest’operazione, dunque, è un crogiolo di riferimenti che strizzano l’occhio all’India ma, spesso, nel modo sbagliato. Per Rao, le strade sono due: o sezionare chirurgicamente la serie alla ricerca delle sviste e perdendo di vista la quota dell’intrattenimento, o guardarla per quel che è e che vuole essere, un mix di romanticismo e frivolezza che prova a sdoganare, nella televisione mainstream, il tema della pluralità delle razze e accenni al femminismo e alle battaglie contro il classismo.
«Lo ammetto: in passato sono stata una purista. Ogniqualvolta vedevo un asiatico in un film o in un serial mi sembrava fuori posto perché o veniva incasellato sotto un’etichetta che, inevitabilmente, portava a discriminarlo o veniva uniformato alla cultura dei bianchi, perdendo la sua essenza», ha spiegato la reporter, «oggi, con le consapevolezze che la società ha restituito alle minoranze in termini di identità e rappresentazione, non avverto più questo disagio».

Probabilmente, una prospettiva più flessibile aiuta a guardare il prodotto senza lasciarsi sopraffare troppo dal peso delle sviste: «Il razzismo esiste ancora, il colore della pelle viene ancora percepito come un deterrente ma negli Sharma, ad esempio, sono riuscita a vedere entrambe le cose, lo sforzo di avvicinarsi a una cultura diversa dalla propria e l’errore che, inevitabilmente, si fa nel tentare di conciliarla con le esigenze della grammatica seriale. Legittimo, fino a quando non sfocia nell’offesa o nell’appropriazione culturale».