Brexit, tutti i risultati fallimentari del Regno Unito a 6 anni dal Leave
L'economia britannica frena più di ogni altra. Il reddito pro capite cresce poco. Servizi, costruzioni, moda e lusso hanno subito contrazioni. L'immigrazione clandestina non si è arrestata. E gli effetti su salari e produttività dureranno un decennio. I contraccolpi di 6 anni di Brexit.
Alla fine del XIX secolo il prospero e colossale impero britannico si gloriava di vivere in una splendid isolation, un meraviglioso isolamento diplomatico che garantiva benessere e neutralità rispetto alle contese che riguardavano gli Stati europei. Nel 2016 i sudditi di Elisabetta scelsero la Brexit, vagheggiando un’altra stagione di meravigliosa e solitaria opulenza una volta liberatisi dai vincoli dell’Unione europea. A sei anni e tre mesi da quel voto, il bilancio può essere fatto. Il sogno non si è realizzato. Il divorzio con l’Europa si è compiuto il 31 gennaio 2020, ma le promesse sono rimaste incompiute. Nulla è più emblematico di questo fallimento del tramonto di Boris Johnson che nel 2016 scelse di cavalcare la Brexit da sindaco di Londra, per poi guidare, da primo ministro, il partito conservatore a una netta vittoria elettorale nel 2019 con lo slogan «Get Brexit Done» («realizziamo la Brexit»).
Nel 2020 il Regno Unito ha avuto il peggior tracollo dei Paesi del G7
Il miraggio più abbagliante è stato quello che, senza i vincoli di Bruxelles, l’economia sarebbe stata pronta a un prodigioso sviluppo. I dati di questi anni sono ovviamente difficili da analizzare a causa dell’impatto della pandemia (e più recentemente della guerra in Ucraina), ma nel 2020 il Regno Unito ha avuto il peggior tracollo dei Paesi del G7 con un calo del prodotto interno lordo di quasi il 10 per cento. La ripresa è stata decisa nel 2021, ma l’economia è ancora in difficoltà. I dati più aggiornati dell’Office of National Satistics mostrano il Pil di giugno in flessione dello 0,6 per cento. I settori dei servizi non sono ancora tornati a livelli pre-Covid e il ramo delle costruzioni registra a giugno un calo dell’1,4 per cento. La Bank of England ha già previsto che il Paese entrerà in recessione entro la fine dell’anno. Anche qui pesano altri fattori non solo legati alla Brexit, ma secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico dal 2016 il reddito pro capite dei sudditi degli Windsor è cresciuto solo del 3,8 per cento, contro l’8,5 per cento dei cittadini Ue.

Dal 2019 il commercio con l’estero ha subito un crollo dell’8 per cento
Gli analisti stimano, al netto di altri fattori, che il peso negativo della Brexit sul Pil possa essere addirittura del 5 per cento. Un recente studio della Resolution Foundation e della London School of Economics dipinge un quadro anche più allarmante. Non solo l’uscita dall’Europa è stato un danno, ma gli effetti peggiori matureranno nel prossimo decennio. «Il lascito a lungo termine di Brexit sarà una crescita più lenta dei salari e della produttività», dicono i ricercatori. Dal 2019 il commercio con l’estero ha subito un crollo dell’8 per cento (l’effetto Covid incide solo in parte visto che la Francia ha avuto un passivo del 2 per cento), si è persa competitività anche a livello globale con un declino delle quote di mercato in Paesi extra-europei come Stati Uniti, Canada e Giappone. L’attuale evoluzione dei commerci comporterà una riduzione della produttività di un 1,3 per cento in questo decennio.

I settori del lusso e della moda hanno pagato un prezzo alto
Le ottimistiche previsioni di nuove opportunità sui mercati esteri non erano realistiche. Lo ha confermato anche l’osservatorio ReatailX che pubblica report annuali legati ai diversi settori del commercio. I settori del lusso e della moda hanno pagato un prezzo molto alto con le regole che hanno abolito gli acquisti Duty-Free. Nel 2021 il 98 per cento dei brand della moda inglesi hanno riferito un peggioramento delle condizioni di lavoro per l’incremento degli obblighi burocratici, il 92 per cento ha segnalato l’aumento delle spese per le spedizioni, il 53 per cento ha registrato annullamenti di ordini dall’Unione europea e un 44 per cento un incremento di resi sugli ordini in seguito ai costi maggiorati e alle mancate esenzioni fiscali. L’introduzione del nuovo marchio di qualità UKCA, inoltre, comporta per alcuni settori come quello dell’elettronica, l’applicazione di un pletorico e costoso doppio standard, andandosi ad aggiungersi alle regolamentazioni già previste dal marchio CE. Va inoltre aggiunto che il prelievo fiscale è in costante crescita, era il 33,5 per cento del Pil prima della pandemia, salirà al 36,2 per cento nei prossimi anni. Il tasso più alto dagli Anni 50. Una situazione che secondo un recente sondaggio non piace ai due terzi della popolazione.
La sterlina ha retto, ma nel mercato del lavoro manca manodopera
Fin qui insomma tutto male. C’è chi vorrebbe vedere il bicchiere mezzo pieno. Gli scenari peggiori non si sono verificati. La sterlina continua a essere una valuta solida. Il Paese si mantiene autorevole nello scenario globale. Le periodiche scarsità di prodotti sugli scaffali sono state contenute. Per quanto riguarda il lavoro, alcuni settori hanno dovuto licenziare, ma la disoccupazione si è mantenuta a livelli molto bassi (attualmente è al 3,8 per cento). Quest’ultima però non è una buona notizia perché il basso livello di disoccupati segnala anche una forte scarsità di lavoratori per alcuni settori, soprattutto quelli che impiegano manodopera con salari bassi (agricoltura, personale di servizio per strutture alberghiere, autotrasportatori). Il settore sanitario inoltre, già provato per la pandemia, è tragicamente a corto di figure a tutti i livelli.

Immigrazione, altro che stretta: gli extracomunitari sono aumentati
Questo introduce un ulteriore tasto dolente di Brexit: l’immigrazione. «Riprendiamo il controllo delle nostre frontiere»: la campagna per il “leave” fu anche sostenuta da un forte movimento nazionalista contro l’afflusso di stranieri (specialmente da Paesi africani e asiatici). Anche qui il bilancio è una débâcle. Uno studio della Oxford University ha rilevato come a giungo 2021 i cittadini della Ue impiegati nel Regno Unito sono diminuiti del 6 per cento rispetto a due anni prima, ma i lavoratori extracomunitari sono aumentati del 9 per cento. Si è registrato un notevole incremento di immigrati soprattutto da India, Nigeria e Filippine. L’immigrazione clandestina è cresciuta tanto da far ideare a Boris Johnson il discusso progetto (destinato probabilmente a eclissarsi) di trasferimento di una percentuale di richiedenti asilo in Rwanda.
I problemi con l’Irlanda del Nord che non è uscita dall’Unione europea
Ulteriormente rappresentativo del fallimento di Brexit è la situazione al confine tra Irlanda del Nord e Irlanda. Di fatto l’Irlanda del Nord, parte della Gran Bretagna, non è uscita dall’Unione europea visto che il confine fisico non è stato ripristinato e le province del Nord rimangono nel mercato comune. Ogni situazione alternativa avrebbe compromesso l’economia della regione e avrebbe violato gli accordi di pace che misero fine alla triste stagione dei “troubles”. Tuttavia questo avvicina sempre più l’Irlanda del Nord al resto dell’isola; una secessione, seppure ancora improbabile, non è però né impossibile né sarebbe un atto eversivo. Gli accordi del 1998 infatti prevedono il “principio del consenso”: il segretario per l’Irlanda del Nord ha il potere di convocare un referendum per chiedere l’approvazione di una riunificazione irlandese.

E ora con Liz Truss? La nuova premier era per il “remain”, ma si è pentita
«Voglio un accordo migliore per la gente di questo paese. Dobbiamo risparmiare denaro e riprendere il controllo», con queste parole Boris Johnson dichiarava il suo sostegno alla campagna per il “leave” nel 2016. Sembra un’era geologica fa. Lo scorso luglio The Economist ha celebrato la caduta del primo ministro con il titolo Clownfall (un gioco di parole che significa “la caduta del clown”) e mettendo in copertina l’ex sindaco di Londra intento in una delle sue “pagliacciate”: quando nel 2012 per festeggiare una vittoria olimpica rimase appeso nel vuoto attaccato a un cavo nel bel mezzo di Victoria Park. I suoi tre anni alla guida del governo verranno ricordati per una serie di promesse mancate, scandali, ma anche di circostanze sfortunate. Il nuovo primo ministro Liz Truss si è dichiarata una sostenitrice del “remain” pentita. Votò contro la Brexit nel 2016 per poi convincersi, a dir suo, che era la giusta strada per la Gran Bretagna. «Non vuole vedere il mostro che ha sotto il letto», ha commentato ironico un editoriale del The Guardian. L’ondata della Brexit però non può più essere fermata e la nuova inquilina di Downing Street che ha come modello politico Margareth Thatcher dovrà guidare il paese nella tempesta.