Rivedremo i fantasmi? Le schiere dei fragili, gli ultimi, torneranno a esserci quando il Covid mollerà la presa? Quelli che la sera si acconciavano i letti sotto i portici, negli androni dei palazzi? Cosa hanno fatto, che ne è stato dei marginali, di quanti avevano un passo diverso rispetto ai “normali”, già prima che la pandemia cambiasse tutto? Tutto è finito dietro la coltre di un lenzuolo che ha fatto sparire molta parte di un’umanità in travaglio. E ora che il cielo si squarcia ricompaiono volti di cui ci si era scordati. Fra i disperati, i più disperati sono i dipendenti da droga: basta imboccare uno qualunque dei sentieri che portano nei parchi, di una città qualunque ed è come lanciarsi in un volo interstellare, un cambio di pianeta, una galassia lontana nemmeno immaginata.
Alla ricerca della brutta, come chiamano i pusher l’eroina
Salire sulla metro, sui bus, sui treni che vanno verso le aree verdi più grandi: capita di sentirlo, un puzzo selvatico, che sa di foglie di eucalipto mischiate con quelle di oleandro, un odore amaro, inconfondibile. L’eroina. “La brutta”, così la chiamano i pusher finiti dentro nell’ultima operazione di polizia che prova ad arginare lo spaccio nel bosco di Rogoredo, alla periferia di Milano. “La bella”, chiamano invece la cocaina, perché l’odore è meno mefitico, gli effetti apparentemente meno devastanti. Ma sia la “bella” che “la brutta” sono un viaggio infernale per i tossici: quelli che arrivano nel parco delle Groane si mettono in fila, ordinati come soldati. Attendono. Quelli che intorno sembravano alberi, si animano, trasformano i rami in braccia, le allungano sulle prede intrufolando le dita dappertutto. Scompaiono. I disperati restano a tasche vuote, sui palmi delle mani luccicanti palline. È un’immagine consueta nei parchi intorno a Milano, anime dannate a cui della pandemia non frega nulla: il loro è un virus diecimila volte più potente del corona, per un’esistenza devastata finché la vita resiste.

La mappa dell’annientamento chimico: dal Banhof Zoo al Platzspitz
Quasi ogni decennio, e ogni Nazione, ha avuto un luogo simbolo dell’annientamento chimico collettivo: alla fine degli Anni 60 c’erano i raduni dei reduci dal Vietnam, poi ci sono stati i grandi concerti rock. Da metà Anni 70 fino alla fine, Berlino era la calamita dei tossicodipendenti, Bahnhof Zoo, il parco attaccato alla stazione ferroviaria ne aveva tremila di media ogni giorno. Gli Anni 80 portarono la disperazione in Svizzera, a Zurigo, Platzspitz materializzava lunghe file di giovani in attesa del buco libero. David Bowie abbandonava il glam rock, si trasformava nel Duca Bianco e le note di Station To Station erano la colonna sonora di chi si faceva.
Carnefici zombie come le vittime
In Italia, nell’ultimo decennio, il luogo più significativo per le tossicodipendenze è stato il “boschetto” di Rogoredo, si scendeva alla stazione, si imboccava la via Sant’Arialdo, e già di prima mattina c’era la fila degli addolorati in viaggio: costeggiavano la ferrovia in una strada a doppio senso, stretta, senza lo spazio per i pedoni. Superavano un cavalcavia, passavano dal lato opposto e il bosco si animava: gli spacciatori arrivavano a onde, ognuno cercava una presa. Offrivano di tutto, promettendo qualità e prezzo imbattibile. E i carnefici non differivano dalle loro vittime, erano zombie, dovevano dare a forza un morso, per infettare, la droga la usavano oltre a venderla. Tossici e spacciatori si avvinghiavano per gli scambi. Formavano un plotone di anime alienate che si trascinava dove non esisteva più niente. I disperati che arrivavano al boschetto, e i disperati che spacciavano al boschetto: esseri che sono stati uomini si annientavano sotto gli alberi, in un silenzio che diventava paranoia, schizofrenia: senza, nemmeno, un David Bowie che facesse da colonna sonora come per le generazioni passate. Tutto qui si dipanava dentro un’immensa e verdissima stanza anecoica, e tutto si originava senza che ci fossero stati scontri generazionali incombenti, tutto senza nessuna causa scatenante se non l’assenza di umanità, il vuoto. Il boschetto di Rogoredo è stato per una generazione di tossicodipendenti ciò che per Cristiana F e i ragazzi è stato lo Zoo di Berlino, ciò che per un’altra generazione è stato a Zurigo, lo Platzspitz, con la differenza di essere un luogo silente, senza musica, senza ragioni evidenti, o almeno comprensibili, della perdizione volontaria.

Gli angoli delle città restituiscono ciò che si era nascosto
Il “boschetto” è stato un orto in cui si sono seppellite le anime, e sopra non ci è cresciuto nemmeno un fiore. Ma si pensava che fosse un camposanto chiuso. Sigillato da un tutto esaurito. Cancellato dalla voglia di vita che spirava da Milano. Sembrava che tutto fosse finito, superato, che gli sforzi dello Stato, della Città, avessero definitivamente vinto e che il parco di Rogoredo potesse rappresentare la rinascita, con le riqualificazioni, i continui arresti. Invece la disperazione ha navigato i mari verdi dei parchi lombardi durante la pandemia. Le navi dei fantasmi tornano a dirigere la prua verso Rogoredo. E il mare sociale che ha livellato le onde della marginalizzazione nella stagione della pandemia, torna ad avere increspata la superficie. I fantasmi imboccano di nuovo via Sant’Arialdo, dividendosi fra chi cerca “la bella” e chi non usa eufemismi per indicare la propria sorte, e va verso “la brutta”. È passato più di un anno, ci si è domandati come se ne sarebbe usciti dalla pandemia. La risposta era semplice: la stesa di un lenzuolo sopra un problema non lo risolve, lo nasconde. La levata del lenzuolo restituisce intonso il problema. Gli angoli riparati delle città restituiscono ciò che si era nascosto. E i posti come “il boschetto” ritornano a fabbricare fantasmi.