La cultura russa non si cancella, ha ribadito il presidente della Repubblica Mattarella, arrivando alla Scala per l’apertura della stagione. Giusto. Ma non è detto che questo sano principio porti ogni volta a un’adeguata valorizzazione. L’inaugurale Boris Godunov di Modest Musorgskij, ad esempio, è parso spettacolo nettamente diviso fra un’incontestabile qualità musicale e una più opinabile efficacia di quello che si è visto.

La fortuna recente dell’Ur-Boris
Da quando, all’inizio del Novecento, è stata riscoperta e ha cominciato a essere frequentemente rappresentata come merita, questa partitura è stata a lungo sottoposta a tagli, aggiunte, aggiustamenti, modifiche, revisioni in serie, anche nel caso dei due nitidissimi autografi lasciati dal compositore, quello della versione iniziale (1869) e quello della successiva profonda rielaborazione (1872) dell’opera. Alla Scala è stata proposta la prima, il cosiddetto Ur-Boris, sempre più apprezzato (ed eseguito) negli ultimi tempi per la sua natura di solido blocco drammatico scolpito nella psicologia del protagonista. In passato, peraltro, non era mancato chi aveva sottolineato la debolezza di una drammaturgia nella quale l’Impostore, figura chiave della vicenda, «scappa saltando da una finestra alla fine della seconda parte e non si vede più» (così ironizzava Richard Taruskin).

Holten ha elaborato la versione del 1869 alla luce di quella del 1872
Dopo la diretta su Rai 1, l’impressione è stata che se il versante musicale ha delineato un rispettoso quanto appassionato itinerario dentro alla volontà artistica del compositore russo, l’apprezzato regista danese Kasper Holten, al suo primo allestimento del Boris, abbia sentito il problema della debolezza, vera o presunta che sia, di questa versione iniziale e per questo abbia deciso di “elaborarla” alla luce della versione 1872. E quindi facendo riapparire, molto a modo suo, l’Impostore, che invece secondo il compositore esce definitivamente alla fine della seconda parte. Accade, naturalmente, nell’ultima scena: il regista vede la morte dello zar come l’effetto di un complotto che si dipana nella fase finale sotto gli occhi degli spettatori. Ma i complotti in quest’opera restano sempre sullo sfondo, effetto e non causa degli eventi storici narrati musicalmente. Comunque, con un complesso e anche efficace gioco attoriale in controscena, si fa intendere che l’Impostore e il monaco Pimen – che gli ha raccontato la storia dello zarevič trucidato – sono complici a loro volta manovrati dal boiaro traditore Šujskij. Per rendere la cosa plausibile compaiono anche un paio di sicari armati di coltelli, nonostante Boris stia morendo per conto suo. Gran finale, ed ecco l’Impostore ghignare soddisfatto sul cadavere dello zar.

La regia non coglie l’innovativo realismo musicale dell’opera
Prima di questa chiusa, Holten cerca altre strade narrative anche nella fondamentale scena precedente, la prima della quarta parte. In essa è centrale il ruolo del popolo, visto dal musicista come una massa facilmente manovrabile, affamata e arrabbiata. Una visione negativa e molto pessimista, quella di Musorgskij, che lascia al centro del discorso il potere con le sue degenerazioni e la sua dinamica di auto-annientamento. Cruciale in particolare il confronto-scontro fra lo zar e l’Innocente, un “folle di Dio” che apre la fase finale della devastante, shakespeariana crisi del protagonista, dicendo in faccia a Boris che non può pregare per uno zar-Erode. Anche lui, come tutto il popolo, lo considera infatti responsabile dell’infanticidio dello zarevič. Tutto questo nello spettacolo alla Scala viene letto non in una declinazione storico-ideologica, ma in chiave soggettiva e psicologica, esclusivamente nella prospettiva di un Boris Godunov ormai risucchiato nella follia. Il suo è un vero e proprio delirio psicotico che moltiplica la presenza di cadaveri sanguinolenti in scena (fino a quel momento si era visto solo quello dello zarevič) e sdoppia i figli, mostrandoli anche massacrati e uccisi. Da questo incubo un po’ horror e un po’ splatter si arriva al complotto finale, altrettanto divagante rispetto agli essenziali nessi drammaturgici delineati da Musorgskij. Il principale di questi nessi è costituito dall’emozionante tensione del musicista a realizzare una innovativa forma di realismo musicale nell’opera. Qualcosa di molto distante dalla narrazione a due poli di Holten, divisa fra naturalismo di maniera nelle prime due parti e patologico incubo nelle altre due.

Suggestive le scene di Devlin, poco efficaci i costumi di Ellekilde
Funzionali e non di rado suggestive le scene firmate da Es Devlin, che punta tutto sulla rappresentazione scenica della scrittura (proprio quella di Puškin, autore del dramma che ispirò il musicista), intesa come fondamento della ricerca della verità e potente strumento psicologico. Non altrettanto efficaci i costumi di Ida Marie Ellekilde, fastosamente storici quando il racconto è “oggettivo”, all’inizio; poi stravaganti in chiave attualizzata (non si capisce bene per quale motivo): Boris muore in un completo scuro con panciotto, i boiari-complottardi hanno giacche dalle maniche doppie.

Chailly fedele all’aspra lettera del gesto creativo di Musorgskij
Dal podio, Riccardo Chailly ha delineato un’interpretazione per molti aspetti esemplare, fedele all’aspra lettera del gesto creativo di Musorgskij pur esaltandone a pieno la forza espressiva. Una lettura capace di passare dal magma sonoro delle scene di massa alla sottigliezza dell’introspezione con fascinosa duttilità, mettendo fra l’altro in evidenza come le seduzioni timbriche create da Rimskij-Korsakov nella revisione che svelò l’opera al mondo non siano affatto superiori alla visionaria, rapinosa concretezza delle invenzioni di Musorgskij. Che sottolineano fra l’altro l’intensità del lavoro sul colore come elemento drammatico da parte di questo musicista.
Abdrazakov ha scavato nelle ambiguità e nelle contraddizioni del personaggio
Compagnia di canto in larga parte madrelingua. L’annotazione serve per capire come in generale abbia trionfato, con tutto il fascino della “realizzazione originale”, la straordinaria musicalità del russo, anche quando declamato con ruvida intensità come accade spesso in quest’opera. Poi, compagnia di cantanti-attori sofisticati, ciascuno calato nella parte con ammirevole adesione al realismo inseguito dal compositore. Ildar Abdrazakov è stato un Boris dalla voce affascinante, capace di scavare dentro all’ambiguità e alle contraddizioni del personaggio fino ad ammantarlo di commovente nobiltà d’animo. Notevole anche il Pimen di Ain Anger, monaco-cronista diviso fra l’appello della fede e il dovere della testimonianza con una linea di canto dalla suggestiva mobilità. E come lui impeccabile Norbert Ernst nei panni dell’infido boiaro Šuiskij, grazie a un fraseggio capace di passare dal sussurro alla perorazione con eguale intensità espressiva. Dmitry Golovnin è stato un Grigorij (l’Impostore) di plateale eppure non esagerata ambiguità, mentre Yaroslav Abaimov non ha fatto mancare all’Innocente il dolore profondo, proprio di tutto un popolo, che si leva dal suo desolato Lamento. Bene, perché fuori dalla caricatura e dentro a un’appropriata vena realistica, i due monaci vaganti della seconda parte, il Varlaam di Stanislav Trofimov e il Misail di Alexander Kravets, come pure l’ostessa di Maria Barakova. I due figli di Boris, Fëdor e Kšenija, avevano le voci sopranili di Lilly Jørstad e Anna Denisova. Ammirevole l’impegno e l’attenzione del coro istruito da Alberto Malazzi, chiamato invece a districarsi in una lingua largamente sconosciuta e per di più con la complessa metrica disegnata dal libretto approntato dallo stesso Musorgskij. Prova in crescendo e alla fine – al momento della riunione dei boiari con un arduo intarsio di voci – davvero esemplare.

Il Boris non convince il pubblico di Rai1: in tv solo la diarchia Verdi-Puccini può funzionare
Successo dentro alla sala del Piermarini, incorniciato dagli ormai stabilizzati cronometraggi degli applausi, così equivalenti da essere sovrapponibili anno dopo anno: 4 minuti per il presidente all’inizio, una dozzina di minuti per gli interpreti alla fine. Per nulla, sovrapponibili invece i dati Auditel, per i quali non è esagerato parlare di crollo: 1.495.000 spettatori, share al 9,1 per cento. Se già l’anno scorso i due milioni (scarsi) di spettatori per il verdiano Macbeth avevano fatto discutere, i numeri dicono che negli ultimi tempi solo con Attila nel 2018 si era scesi e di poco sotto questa soglia psicologica ormai data per scontata. Sembra un’altra era, ma nel 2019 la pucciniana Tosca aveva portato davanti agli schermi 2.856.000 persone, pari al 15,6 per cento di share. Gli immarcescibili conduttori della diretta Rai sono sembrati presagire il rovescio. Bruno Vespa ha parlato di opera «tenebrosa e complessa» ma ha trascurato all’inizio di fornire un decente riassunto della vicenda; Milly Carlucci, in trasferta da Ballando con le stelle, ha insistito a parlare di una serata senza particolari sfarzi mondani, da periodo di crisi, anche se quel che si vedeva in tv non andava proprio nel senso di questa narrazione minimalista. Certo, era Musorgskij; certo, si cantava in russo (però i sottotitoli erano molto puntuali e ben fatti). Ma l’evidenza sembra essere che solo la solita diarchia Verdi-Puccini può funzionare. E che le opere “complesse”, anche se sono capolavori come il Boris, sono una sfida molto a rischio. Anche nell’era della complessità.