Sono passati quasi 60 anni da quel 25 luglio 1965 quando Bob Dylan, all’epoca vera star del mondo del folk, arrivò sul palco del Newport Folk Festival e, letteralmente, fece scoppiare la bomba. In uno dei contesti più tradizionali e radicali della musica americana, infatti, Dylan decise di andare controcorrente, proponendo un set elettrico che non si limitò a fare scandalo, ma sancì un punto di non ritorno per la sua carriera, al punto che di lì in poi, per anni, ogni sua esibizione venne contestata da fan che si erano sentiti traditi. Quasi un atto di blasfemia, il suo, commesso da chi fino a quel momento era stato considerato quasi alla stregua di un Dio.

Dylan e il primo gesto punk della storia
Attaccare la spina, simbolicamente e fisicamente, fu visto come atto rivoluzionario. Per alcuni scriteriato e osceno, per altri irriverente: rock’n’roll. Bringing it all back home, album che Dylan presentò sul palco di Newport accompagnato da una band con chitarre elettriche, e i successivi Highway 61 revisisted e Blonde on blonde – tre dischi parte di una trilogia usciti nel giro di poco meno di un anno e mezzo – cristallizzarono il tutto su traccia. Dopo aver portato un set acustico sul palco il 24 luglio, sembra che Dylan si sia risentito per una recensione poco lusinghiera che Alan Lomax, musicologo e antropologo, aveva fatto al blues della Paul Butterfield Blues Band, al punto da provare nella notte con la sezione ritmica della band criticata – Sam Lay e Jerome Arnold, batteria e basso, coadiuvati dal compagno Barry Goldberg al pianoforte, Mikle Bloomfield alla chitarra elettrica e Al Kooper all’organo, già con lui in studio di registrazione – quello che entrerà nella storia come il primo gesto punk di tutti i tempi. Dylan salì sul palco vestito di nero, una Fender Stratocaster nelle mani, pronto a eseguire una versione durissima di Maggie’s Farm, con tutto quello che ne conseguì. Se sia vero o meno che nel backstage qualcuno abbia visto Pete Seeger, altro nume tutelare del folk, tentare di tagliare i cavi con un’ascia non è dato saperlo, potrebbe essere storia come leggenda, ma di fatto quello è stato il momento esatto in cui l’elettricità ha fatto la sua irruzione nella tradizione, e proprio per mano di colui che della tradizione era considerato al momento l’enfant prodige, portavoce di una nouvelle vague proveniente dal Greenwich Village di New York. Attaccare una spina a un amplificatore, infilare un jack collegato a una chitarra elettrica, abbatté in un solo colpo qualcosa che sembrava solidissimo, inattaccabile, destinato a rimanere simile a se stesso nel tempo.
Oggi la musica prodotta da macchine è avvertita come un gioco da sottofondo mentre si fa altro
Oggi, anno del Signore 2023, attaccare un jack a una chitarra elettrica, suonarla su un palco come in uno studio di registrazione, magari avendo prima provato il tutto in una cantina umida, con confezioni di uova appese alle pareti per tentare goffamente a insonorizzare il tutto, viene visto esattamente come quasi 60 anni fa. Nulla a che vedere coi corsi e ricorsi storici di vichiana memoria. È che oggi si tende – per ragioni anche comprensibili, intendiamoci – a considerare quella che un tempo veniva considerata musica che usava delle scorciatoie, dei trucchi o artifici, come la sola musica vera, suonata da persone e non da macchine, quindi in quanto tale sincera, fallibile, imperfetta di quella imperfezione sinonimo di vita, di profondità, mentre tutto ciò che dalle macchine è riprodotto, suonato, è avvertito come finto, irreale, poco più di un gioco buono come sottofondo mentre si fa altro.

Umano vs inumano: così la scena musicale è diventata Matrix
Così, dopo che a partire dagli Anni 70 le macchine, leggi alla voce sintetizzatori, tastiere, computer, hanno fatto la loro felice irruzione nel mondo del rock – si pensi a quanto è arrivato all’epoca dalla Germania, dai Kraftwerk in giù, con snodi importanti come quello della new wave, dove per certi versi le macchine sono arrivate a sostituire in toto chitarre e altri strumenti, leggi Depeche Mode – negli Anni 90, il cosiddetto crossover è arrivato a mescolare le carte: un Dj dietro ai piatti a tenere il tempo in compagnia di una tradizionale sessione ritmica, le chitarre a pestare sui distorsori, tra riff e battute funky. Ecco però che un bel giorno, vai poi a ricordare quale, qualcuno ha guardato indietro e si è accorto che no, compagni, le macchine non sono strumenti o se anche li vogliamo considerare tali il fatto che a suonarli non siano persone in carne e ossa, ma programmi, sequenze, algoritmi, le disumanizza. Una sorta di scenario degno di Matrix, con Neo sulla Nabucodonosor a fronteggiare Mr Smith e soci, umani vs inumani. Oggi siamo qui, in un mondo post-apocalittico nel quale chi suona le proprie canzoni usando chitarra, basso e batteria, tutti amplificati, i suoni che passano da un mixer, con effetti ed equalizzazioni, suoni che poi escono da casse a loro volta elettrificate può vantare una verità che le macchine, in quanto tali, non possono arrogarsi, in una lettura del mondo primordiale nel quale, a ben vedere, il progresso è ben presente: citofonare Newport Folkfestival del 1965 per credere. Se quindi un giorno sul pianeta Terra dovesse davvero arrivare un personaggio come lo Jena Plissken interpretato da Kurt Russell in 1997 Fuga da New York e nel sequel Fuga da Los Angeles, e proprio come nel finale del secondo capitolo della saga – spoiler – staccasse letteralmente la spina al mondo, azzerando tutto quello che è stato tecnologia fino a quel momento, fate bene attenzione oh amanti del rock, non resterebbe traccia di trapper, gabber e dj, certo, ma neanche dei rockettari che alzano il volume al loro ampli della Marshall e ci danno dentro col distorsore.