Quando Black Mirror irruppe dentro le nostre televisioni, i nostri device, o ovunque fossimo e siamo soliti seguire le serie tv – parlo del 2011 per Regno Unito e parte del mondo, del 2012 per l’Italia – ecco ci arrivò addosso come una scossa, un colpo forte, destabilizzante. Le puntate della prima stagione, infatti, apparentemente sopra le righe, agghiaccianti per quel tot di contatto col mondo reale, quello nel quale stavamo vivendo allora, e in parte viviamo ancora oggi, erano comunque inquietanti perché paventavano un futuro prossimo, praticamente domani, dai toni decisamente oscuri, disumani, orribili. Al punto che, capita raramente ai programmi tv, di lì a breve si cominciò a dire “uno scenario alla Black Mirror” per qualsiasi cosa sembrasse sufficientemente nuova da non essere decodificabile con gli strumenti usati fino a quel momento, e latrice di qualcosa di assolutamente poco buono.
Black Mirror ha rotto i confini tra immaginato, futuribile e attuale
La fantascienza – e in qualche modo Black Mirror è ascrivibile a quel genere con tutte le nuove sfumature che porta in sé da quando, ormai oltre 40 anni fa, fu sconvolto dal gruppo scapestrato dei cosiddetti cyberpunk che spostarono sul virtuale quello che fino a poco tempo prima era tutto astronavi e invasioni aliene – ha in sé tutta la carica appassionante dell’avventura, salvo avere non troppi punti di contatti con l’oggi, in modo da lasciare le inquietudini spesso fuori dalla porta. Ovviamente ci sono eccezioni illustri – penso a Richard Matheson e al suo Io sono leggenda, per dire – ma Black Mirror è stato capace, negli anni, di avvicinare sempre più il confine tra l’immaginato, il futuribile e l’attuale, arrivando a portare quel senso di spaesamento che si prova di fronte a qualcosa di sconcertante che però ai nostri occhi ha qualcosa di familiare, molto familiare. Anche perché, questo forse neanche gli ideatori di Black Mirror potevano ipotizzarlo, nel mentre l’attuale, il familiare, appunto, il quotidiano si è fatto sempre più simile a scenari plausibili in un episodio della serie. Cosa, per dire, che non è mai accaduta in altre serie anche rivoluzionarie come Ai confini della realtà, con la sola eccezione, forse, dei Simpson, che però hanno dalla loro una tale vastità di puntate da potersi giocare serenamente la legge dei grandi numeri: sparando nel gruppo qualcuno sicuramente verrà colpito.
Chi avrebbe mai pensato che la realtà superasse a destra la fantasia?
Chi avrebbe mai potuto immaginare l’avvento dei social prima che i social arrivassero? Chi avrebbe immaginato che l’essere sempre connessi, costantemente in Rete, non avrebbe portato verso quella libertà anarcoide che William Gibson e soci avevano messo in conto, quanto piuttosto indotto tutti a una sorta di controllo perenne, quello sì non troppo diverso da certi scenari dipinti da Orwell o Heinlein, per non dire dei fratelli, ora sorelle, Wachowski? Chi, infine, avrebbe mai pensato che la realtà, in una mossa solo in apparenza azzardata, avrebbe superato a destra la fantasia, proponendoci un menu molto più sfizioso di quello scritto con cura da un pool di sceneggiatori decisamente geniali? Pensate al momento del Covid, tutti collegati da casa, i droni a spiarci fuori dalle finestre, Soderbergh e il suo Contagion abbondantemente sorpassati dalla storia?

Una volta diventati venerati maestri sarebbe meglio fermarsi
Ora arriva su Netflix la sesta stagione della serie ideata e prodotta da Charlie Brooker, e ancora una volta, come per miracolo, il gioco caleiodoscopico di rimandi tra realtà e finzione, dove la finzione è appunto un semplice spostare avanti di qualche tempo il calendario – magari non necessariamente nella nostra stessa linea temporale, ma comunque sempre da quelle parti – riesce alla perfezione. Intendiamoci, strada facendo, a partire dall’introduttivo episodio Joan è terribile, Truman Show sotto LSD e in era social, la tecnologia, convitata di pietra fin dal primo memorabile episodio di ormai 12 anni fa, sembra volersi fare da parte, uscire di scena lasciando che a tratteggiare un futuro quantomai distopico sia altro. Una scelta forse dovuta, dal momento che il futuro prossimo del 2011, quello immaginato da Brooker, nel frattempo è arrivato e, come spesso è capitato proprio alla fantascienza, ci ha presentato piatti in tavola diversi da quelli scritti sul menu, ma non per questo meno appetitosi. Certo, l’impressione è che come per la saga American Horror Story (per restare nell’ambito di una serie tv che, come Black Mirror, ha negli anni cambiato pelle, provando a scartare continuamente di lato laddove non riusciva più a muoversi velocemente in avanti) siamo ormai arrivati al capolinea. Quelle felici intuizioni, felici si fa ovviamente per dire, sono destinate a rimanere cristallizzate nel tempo, nella storia. Del resto, niente di quel che appare in questa come nelle altre stagioni è lasciato al caso. L’ultimo step, capitolo cinque di cinque della stagione nuova, Demone 79, è uno sguardo a un passato pretecnologico, almeno per come poi la tecnologia si è evoluta gettando le basi proprio per l’oggi e per una serie come Black Mirror. Un 1979 quasi steampunk, luddista, impeccabile nel suo fare da ombra per provare a consentire una profondità prospettica altrimenti impossibile. Quando si prende coscienza di essere diventati venerati maestri, lo diceva già in tempi non sospetti Alberto Arbasino che di fronte a una qualsiasi puntata di Black Mirror immagino sarebbe inorridito mentre affrontava quel 1979 consapevole che non avrebbe più scritto romanzi, forse è meglio fermarsi e farsi ricordare: il passo per diventare vecchi stronzi è davvero troppo breve.