Donald Biden

Nicolò Delvecchio
23/08/2021

È stato eletto per voltare pagina dopo Trump, ma le mosse in politica estera del Presidente Usa non sono molto diverse da quelle del predecessore: dall'Afghanistan a Israele, passando per il centro America. Ecco perché.

Donald Biden

Da quando Joe Biden ha giurato come 46 esimo Presidente degli Stati Uniti sono passati appena sette mesi, ma sulla sua politica estera è già possibile fare un primo bilancio. Tutto ovviamente ruota attorno al frettoloso – e disastroso – ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, che ha lasciato un Paese in ginocchio permettendo ai talebani di tornare al potere dopo 20 anni. Ma in queste poche settimane altre situazioni, legate ad aree del mondo in cui gli Usa hanno sempre fatto valere la propria influenza (o almeno ci hanno provato), hanno lasciato gli osservatori internazionali perplessi. Dal silenzio sull’offensiva di Israele nella Striscia di Gaza a maggio, al discorso di Kamala Harris di giugno per scoraggiare l’arrivo di migranti dal Centro America («Non venite»), fino alle nuove sanzioni imposte a Cuba dopo le proteste di metà luglio.

Nonostante l’ex vice di Obama si sia presentato come la nemesi di Donald Trump, alcune sue scelte in politica estera sembrano improntate a una sorta di America First democratica. Lo ha notato Politico già a luglio, nei giorni successivi al primo viaggio all’estero di Biden per il G7 di Cornovaglia, con un pezzo dal titolo molto eloquente: «La politica estera di Biden: invertire l’agenda di Trump ma seguendo una strada simile». Nell’analisi veniva evidenziato come tutte le scelte fatte per l’estero dal nuovo Presidente avessero come filo conduttore i loro possibili effetti in politica interna: «Anche nelle iniziative internazionali più importanti, il “mondo” di Biden si è ristretto a considerazioni strettamente interne».

Biden e il ritiro dall’Afghanistan

Il ritiro delle truppe dall’Afghanistan è un tema affrontato da Barack Obama, il presidente che ha sostituito chi ha scelto di invadere il Paese, e messo nero su bianco da Donald Trump con gli accordi di Doha del 2020. In questi patti, firmati direttamente coi taliban e non con il governo ufficiale di Kabul, Washington promise il ritiro completo del contingente americano dall’Afghanistan a tre condizioni: fine delle violenze da parte delle milizie, non rendere nuovamente il Paese una roccaforte per i terroristi, dialogo con l’esecutivo afghano. Una parte dell’accordo è stata rispettata, cioè il rientro a casa dei soldati Usa. Le altre tre, evidentemente, no. Biden si è ritrovato in mano questa patata bollente, ma ha deciso di metterci mano il meno possibile. Anzi, la partenza dall’Afghanistan è stata anticipata di diverse settimane, dall’11 settembre a sostanzialmente agosto.

Ancora più sorprendente – se si pensa ai toni utilizzati, non troppo diversi dal precedente inquilino della Casa Bianca – il discorso che il Presidente ha rivolto alla nazione mentre, in tv, le scene di una Kabul in preda al panico occupavano tutto il palinsesto dei telegiornali: «Non mi pento della scelta fatta, la maggior parte degli americani era favorevole. Non era negli interessi degli Usa combattere una guerra civile in un Paese straniero. Le truppe americane non devono morire in una guerra che gli afghani non sono in grado di combattere. Non faremo ciò che loro non sono disposti a fare». Un discorso realista, in teoria anche condivisibile, che però stride con l’immagine che il mondo si era fatto di Biden. Parole che avremmo tranquillamente potuto sentire da parte di Donald Trump.

Biden e il conflitto tra Israele e Palestina

A maggio, poco prima che i talebani ricominciassero a riconquistare l’Afghanistan città dopo città, c’era stata una nuova offensiva di Israele nella Striscia di Gaza. Si è trattata dell’ultima del premier israeliano Benjamin Netanyahu, prima che il suo posto venisse preso dall’ex alleato Naftali Bennett, e ha causato decine di morti e distruzione nei territori controllati da Hamas. Come ha notato l’ambasciatore Hesham Youssef in un rapporto dello United States Institute of Peace, l’amministrazione Biden non sembra avere in mente un piano chiaro per il conflitto: da un lato ha difeso la soluzione dei due Stati, mai considerata da Trump – che ha spostato gli Usa sempre più verso Israele -, dall’altro ha riavviato molto lentamente i contatti con le autorità palestinesi e non ha riaperto il consolato di Gerusalemme (di fatto era l’ambasciata dei palestinesi di Gerusalemme Est), chiuso da Trump che lì ha spostato l’ambasciata da Tel Aviv.

Dovendo mediare tra le due anime del suo partito, quella più moderata filo-israeliana e quella più di sinistra pro-Palestina, Biden ha finora attuato una politica regionale cauta, forse fin troppo. Il suo esecutivo ha riaffermato «il diritto di Israele ad auto-difendersi», ma ha anche definito le annessioni e le colonie nei territori occupati siano una «minaccia per la soluzione dei due Stati». Nel commentare le immagini del bombardamento a un grattacielo di Gaza che ospitava i network internazionali, la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki si è limitata a dire: «Abbiamo comunicato direttamente agli israeliani che garantire la sicurezza e l’incolumità dei giornalisti e dei media indipendenti è una responsabilità fondamentale». Troppo poco, per distaccarsi nettamente da Trump e invertire la rotta del ruolo degli Usa nell’area.

Biden e il Centro America

Se Donald Trump aveva dato un colpo di spugna fortissimo ai rapporti tra Usa e Cuba con sanzioni e limitazioni varie, cancellando di fatto il ravvicinamento avvenuto negli otto anni di governo Obama (simbolico il viaggio nell’isola del Presidente il 20 marzo 2016, il primo in 88 anni), Biden non sembra aver invertito la rotta. Anzi, allo scoppio delle proteste contro il governo di Diaz-Canel, il suo esecutivo si è subito schierato dalla parte dei manifestanti, imponendo nuove sanzioni a funzionari ed enti di L’Avana e accusando il Partito comunista di violazioni dei diritti umani.

Ma anche sul fronte dell’immigrazione il cambio di rotta non sembra essere particolarmente netto. Se è vero che il nuovo esecutivo ha riaperto più rotte per l’arrivo regolare di persone dal centro America, e introdotto leggi che riducano al minimo la possibilità di separare i genitori dai figli minorenni all’arrivo negli Usa (cosa che invece era successa con Trump), non c’è stata l’apertura che ci si aspettava. Emblematiche in questo senso le parole della vice presidente Kamala Harris che a giugno, nel corso di una visita in Guatelamala, ha detto: «Voglio essere chiara con le persone di questa regione che stanno pensando di intraprendere quel pericoloso viaggio verso il confine tra Stati Uniti e Messico: non venite». «Gli Stati Uniti continueranno a far rispettare le nostre leggi e a proteggere i nostri confini», ha continuato, sottolineando che l’amministrazione Biden «vuole aiutare i guatemaltechi a trovare speranza in patria». Una sorta di «aiutiamoli a casa loro» in salsa americana. Le politiche di questo governo sull’immigrazione hanno attirato critiche bipartisan, con i repubblicani che accusano Biden di non saper controllare i confini e i democratici che denunciano politiche simili a quelle di Trump.