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Luciano Bianciardi, Milano e il Bulk: il racconto della settimana

Chissà cosa penserebbe il vecchio Bianciardi, se fosse ancora tra noi, stretto nel suo cappotto cammello, tra una grappa e l’altra, di questo incensamento continuo e di questa Milano che si avvicina a grandi passi al primo Natale post-pandemico. Probabilmente vi manderebbe affanculo, a voi, non a me. Di questo ne sono certo. Il racconto della settimana.

17 Dicembre 2022 09:50 Andrea Frateff-Gianni
Luciano Bianciardi, Milano e il Bulk: il racconto della settimana 6

Venerdì 16 dicembre. Esco in bici senza una meta precisa. Lo faccio spesso quando sono mega stressato, per rilassarmi, per far defluire i pensieri, per distrarmi. Lo facevo spesso anche da ragazzo: saltavo in sella alla mia elegantissima bici nera con i freni a bacchetta, anche meglio conosciuta come la Jaguar delle biciclette, e gironzolavo per le strade sghembe della city con la musica sparata al massimo nelle mie gigantesche cuffie da deejay che accoppiavo a un minuscolo iPod a graffetta che poteva contenere all’incirca un migliaio di canzoni. Preparavo con cura maniacale decine di playlist notevolissime che via via mi snocciolavo in modalità shuffle cambiandole regolarmente ogni settimana. Se ci penso sembra passato un secolo, gli iPod praticamente non esistono più, avere in tasca mille canzoni oggi sembrerebbe una poverata pazzesca e anche la gloriosa Jaguar delle biciclette è passata a miglior vita, cedendo il passo a una stilosissima bici ultraleggera con il freno a contropedale, senza fili e senza fronzoli, con il telaio color blu diplomatico e la sella inglese, di cui sono totalmente pazzo.

Quindi adesso sono a bordo del mio mezzo, in cerca di ispirazione, mentre ascolto Milano di Lucio Dalla, come Jerry Calà all’inizio di quel vecchio film con Marina Suma, intitolato Un ragazzo e una ragazza. A cominciare dai titoli di testa, Milano viene messa in vetrina attraverso immagini della Stazione Centrale, il sottopasso Mortirolo, l’Alzaia Naviglio Grande e la Galleria Vittorio Emanuele. Il protagonista è un giovane studente-lavoratore, Calogero Bertolotti, che, in una mattina autunnale, si innamora a prima vista di Anna De Rosa, una ragazza napoletana appena arrivata al Nord per frequentare l’Università. Penso a questo mentre la bici color blu diplomatico ritrova le sue motivazioni infilandosi nei vicoli di Brera, tra il pavè e i pietroni sconnessi, sfiorando, un po’ amareggiata, i consulenti finanziari e le influencer in posa, diretta verso via Fiori Chiari e Fiori Scuri, verso l’Accademia, verso la Pinacoteca, l’Orto Botanico, il Bar Jamaica, dove ai tempi del liceo serale di Via Goito facevo tappa fissa ogni giorno.

Luciano Bianciardi, Milano e il Bulk: il racconto della settimana 6
Luciano Bianciardi.

Le pagine del Corriere della Sera erano sparse sul tavolo di fianco alle nostre pinte di birra, ai nostri Negroni e Bloody Mary, tra un libro di buone maniere scritto da Lina Sotis, una traduzione di Raboni e il manuale di filosofia. Tra le pareti del Jamaica, in mezzo alle sue piastrelle bianche, circondati da vecchie foto, noialtri ultraripetenti, disertori liceali professionisti, un po’ artisti un po’ malavitosi, ci sentivamo tutti come Luciano Bianciardi, di cui tra l’altro proprio questa settimana decorre il centenario dalla nascita che tutti, ma proprio tutti, stanno celebrando ovunque con lunghi articoli sulle pagine di cultura dei quotidiani, con copertine sulle riviste patinate e con incontri, sparsi in città, zeppi di inutili reading di un suo libro, magari appena ristampato. Chissà cosa penserebbe il vecchio Luciano, se fosse ancora tra noi, stretto nel suo cappotto cammello, tra una grappa e l’altra, di questo incensamento continuo e di questa Milano che si avvicina a grandi passi al primo Natale post-pandemico di questa nuova era. Probabilmente vi manderebbe affanculo, a voi, non a me. Di questo ne sono certo.

Chissà cosa penserebbe il vecchio Luciano, se fosse ancora tra noi, stretto nel suo cappotto cammello, tra una grappa e l’altra, di questo incensamento continuo e di questa Milano che si avvicina a grandi passi al primo Natale post-pandemico di questa nuova era. Probabilmente vi manderebbe affanculo, a voi, non a me. Di questo ne sono certo

Via Pontaccio, Foro Bonaparte, Via Legnano, Bastioni di Porta Volta e poi ancora, oltrepassato il Cimitero Monumentale, via Niccolini. Si è così, in un batter d’occhio, in via Fioravanti e in Via Bramante, dove una volta sorgeva il vecchio Bulk, altro luogo del quale questa settimana si è parlato molto per il venticinquennale della sua nascita. Il Deposito Bulk, che tutti in città chiamavamo semplicemente Bulk, per chi non lo sapesse è stato un centro sociale molto attivo verso la fine degli Anni 90 parallelamente ad altri due spazi occupati non molto distanti, in zona Isola, ovverosia La Pergola e Garigliano. La Pergola era una straordinaria macchina musicale che al piano di sotto ospitava stratosferiche serate di drum&bass, belle come quelle di Londra. Si ballava anche la jungle in Pergola, come in certi covi illegali a Brixton e quando finivi la serata, alle cinque del mattino, si andava a comprare la droga alla vicina Stecca. Una struttura bombardata, nel mezzo del nulla, dietro via Confalonieri, finita rapidamente in mano a un gruppo di nigeriani, illuminata solamente da una serie di bidoni col fuoco dentro sparsi qui e là. Garigliano era famosa in città perché era il quartier generale della meno provinciale band italiana degli ultimi 30 anni, i Casino Royale, e il loro capo Alioscia era il sindaco indiscusso, proprio come succede nei film americani, ambientati magari nel Bronx o a Brooklyn. Il Bulk però era diverso e rispetto a tutti questi luoghi, Leoncavallo compreso, aveva una marcia in più. Al Bulk ci andavano tutti, i figli di papà della Milano bene, i punkabbestia, i raver, gli attivisti, i raga delle piazze e anche i writer, che dentro per un periodo avevano addirittura aperto un negozio illegale di bombolette spray, il Tora Bora, che in breve divenne un vero e proprio punto di riferimento per tutta la scena. I writer più fighi c’erano tutti: Dumbo, End, Ozmo, Bros, Sonda, qualcuno dei TGF, e soprattutto fu il luogo dove si formarono i VolksWriterz, una leggendaria crew che può vantare una storia costellata di battaglie sociali e impegno antagonista, composta da un gruppo di writer militanti, nata a ridosso delle giornate del G8 genovese nel 2001. Ma al Bulk oltre ai writer e a una serie di feste pazzesche di musica elettronica, furono inoltre gettati i semi, tra le altre cose, per la nascita della May Day, la parata musicale pomeridiana del Primo Maggio con camion, biciclette e sound-system, e per quella della costola italiana della Critical Mass, movimento situazionista urbano nato a San Francisco, composto da migliaia di ciclisti che, sfruttando la forza del numero, invadevano le strade normalmente usate dal traffico automobilistico bloccandolo.

Al Bulk ci andavano tutti, i figli di papà della Milano bene, i punkabbestia, i raver, gli attivisti, i raga delle piazze e anche i writer. I più fighi c’erano tutti: Dumbo, End, Ozmo, Bros, Sonda, qualcuno dei TGF, e soprattutto fu il luogo dove si formarono i VolksWriterz, leggendaria crew che può vantare una storia costellata di battaglie sociali e impegno antagonista

All’epoca al Bulk, nonostante il mio totale disinteresse per qualsiasi azione politica, ci andavo anch’io, perché sembrava di stare in qualche squat di Berlino, perché le serate di musica elettronica erano di totale livello, perché dentro quelle mura pericolanti e sudicie si respirava un’aria che in città non si percepiva altrove. Vero che il ricordo addolcisce ogni esperienza, vero anche che in fondo erano i miei 20 anni, periodo disturbatissimo nel quale venivo cacciato da una scuola privata dopo l’altra per indisciplina e nel quale il mio cuore di ragazzo veniva trafitto senza pietà da ogni sbarba che avevo l’ardore di frequentare. Lucilla  mi aveva salutato trasferendosi a Parma per frequentare la facoltà di psicologia ed Elettra era appena partita per Londra, decidendo così di non dare nemmeno una possibilità alla nostra storia sulla quale, come al solito, ad averci investito ero stato solamente io. Se chiudo gli occhi e ci ripenso di Elettra in fondo, oltre al suo essere molto più sveglia di me, al suo stile disinibito, adolescenziale e aristocratico restano giusto cristallizzati nella memoria due pomeriggi. Uno a casa sua, in collina sopra Santa, per le vacanze di Pasqua, durante il quale ci eravamo masturbati entrambi uno di fronte all’altra e un altro da me a Milano, a casa in Piazza Adigrat, dove finalmente nella mia cameretta da sbarbo fiordilatte l’avevo presa da dietro in un vortice di gemiti e sudore e le avevo schizzato stelle filanti di sborra sulla schiena, godendo come mai avevo avuto il piacere di fare in precedenza con nessuna. Quel pomeriggio dei miei 20 anni, con mia zia Pia ricoverata in ospedale e il piccolo ma delizioso appartamento di Piazza Adigrat totalmente a disposizione, mi ero creato intorno l’illusione, osservando Elettra adagiata al mio fianco tra le lenzuola tiepide, di essermi innamorato finalmente della persona giusta. E l’illusione si era rafforzata anche qualche ora dopo mentre rollando l’ennesimo joint assassino della serie restavo imbambolato a guardarla mentre si rivestiva, infilandosi un paio di calze nere di lana, una gonna grigia pelosa e una specie di maglietta di seta, color avorio. Per mesi il ricordo di quella scopata, di lei protesa indietro, a quattro zampe, superbamente scivolosa, mi tenne compagnia nei miei solitari riti onanistici.

Luciano Bianciardi, Milano e il Bulk: il racconto della settimana 6
Il Principe di Savoia, in piazza della Repubblica a Milano.

Il ricordo di Elettra svanisce una decina di minuti dopo mentre continuo a pedalare, sotto un cielo grigio cenere, e la bici color blu diplomatico attraversa Piazza della Repubblica, vestita a festa, tra le luci e le luminarie del Westin Palace e del Principe di Savoia che si fronteggiano uno di fronte all’altro. Il Principe di Savoia era l’hotel dove mio padre per un lungo periodo ha abitato alla fine della sua storia con Valentina e dove soggiornava le volte che passava da Milano quando ancora se lo poteva permettere. Per un piccolo periodo ho vissuto anch’io lì con lui, prima di finire in collegio  e prima di trasferirmi da mia nonna a Palazzo Fidia. Non potrò mai dimenticare però il periodo di Natale del 1994, quando insieme a Nicole mi presentai alla reception dell’albergo a cercarlo perché avevo saputo da mio fratello che era tornato in città. Tornavamo da un sabato pomeriggio trascorso alla discoteca minorile Madame Claude di piazzetta Giordano in San Babila e le dissi: «Vieni con me che ti presento mio padre, dovrebbe essere appena arrivato a Milano e vorrei fargli una sorpresa». Entrammo così nella hall dell’albergo e ci presentammo con i nostri Barbour e le nostre Stan Smith ai piedi alla reception. «Sono il figlio del Dottor Gianni», dissi fiero al concierge, «può dirgli che sono qui?». Il tizio prese la cornetta del telefono, fece squillare per una trentina di secondi e parlò rapidamente con la voce che rispose dall’altra parte del filo. Poi mise giù, guardò me e Nicole con sguardo severo e mi disse: «Il dottor Gianni dice di non avere figli. Se ne vada per favore. Qui non abbiamo tempo da perdere». Poi si fa rapidamente buio, la bici color blu diplomatico entra con disinvoltura nella perfezione barocca delle vie del centro e la condensa d’inquietudine si disperde una pedalata dopo l’altra fino a quando alzo lo sguardo, prima di decidere di tornare a casa e vedo, sotto il cielo inquinato di Milano, una gigantesca scritta illuminata che campeggia in sovrimpressione sopra la Torre Velasca, recentemente messa a nuovo. “WHAT DO YOU REALLY WANT?”.

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