Lunedì 12 giugno. Sono appena tornato da un week end in barca a vela trascorso nel sud della Francia e mi trascino verso casa, senza troppo entusiasmo, con in spalla la mia sacca blu di Piombo che contiene un paio di t-shirt, degli shorts beige Tommy Hilfigher, un costume da bagno Sundek fatto con bottiglie di plastica riciclata e un romanzo giovanile dello scrittore inglese Martin Amis, Dead Babies, che una pessima traduzione italiana ha ribattezzato con il titolo Futuro anteriore. Di fronte al mio portone c’è un po’ di trambusto perché nella via di fronte stanno girando tre mercedes blu ultra-lunghe con il lampeggiante acceso con a bordo il Presidente del Senato. Il tutto accade davanti agli occhi attoniti del noto artista Maurizio Cattelan, abbronzatissimo in polo blu e pantaloncini corti, che sta svoltando in sella alla sua bicicletta nella medesima direzione, carico di buste della spesa.
Di ritorno nell’appartamento al terzo piano affacciato su Viale Regina Giovanna, dopo aver aperto con tre mandate la porta blindata, trovo tutto perfettamente in ordine. Sono quasi le 11 del mattino e siccome voglio farmi una doccia prima di andare a lavorare mi tolgo la Lacoste blu, mi sfilo le scarpe da barca, mi levo i jeans ed entro nel bagno di servizio lasciando la porta aperta. Apro l’acqua calda assicurandomi che abbia la temperatura giusta e prima di infilarmi sotto la doccia accendo la radio. Completamente nudo mi stiracchio, mugolando qualcosa tra me e me, mentre dalla cucina risuonano le note di Pure Morning dei Placebo. Mi lavo velocemente, esco dal bagno e in corridoio, mentre mi asciugo con un telo blu Ikea diretto verso la camera da letto è proprio in quel momento che sento la voce di Linus che in diretta dà l’annuncio della morte di Silvio Berlusconi.
Mio padre Berlusconi non l’ha mai potuto vedere, anche se credo che in realtà non l’abbia mai conosciuto personalmente. «È un mascalzone!», diceva, seduto sul divano componibile Le Courbusier, stringendo il calice di champagne ormai vuoto, ripetendolo continuamente anche durante quel pomeriggio del 31 dicembre 2020
«Quel Berlusconi è un mascalzone!», me lo diceva sempre mio padre, che lo odiava terribilmente e che si scaldava ogni qual volta lo sentiva nominare. Fino alla fine me lo ha ripetuto: «È un mascalzone!», anche quel pomeriggio, il giorno di Capodanno del 2020, seduto in sala, a casa sua a Macherio, sul divano componibile Le Courbusier, dopo che ci eravamo appena aperti una bottiglia di Veuve Cliquot per festeggiare. «Ha portato via centinaia di milioni», mi diceva, con lo sguardo vacuo di un uomo prossimo alla morte a cui erano rimaste attaccate solo le schegge di un passato lontano che ogni giorno, come parassiti, tornavano a divorarlo lentamente. Tutto il saper stare al mondo di un uomo che aveva avuto ogni cosa dalla vita sembrava non bastare più. Rimanevano solo un pugno di rimpianti. Aveva ricevuto l’educazione, i soldi, la fama e una buona dose di fortuna che gli aveva permesso di vivere fino a 95 anni in piena salute ma ciò nonostante non smetteva di tormentarsi, distribuendo le colpe a destra e a manca, provando invano a inseguire una possibile auto-assoluzione dalle sue innumerevoli mancanze. Il passato lo assaliva, non gli dava tregua, come un pugno di mosche che d’estate svolazzano su una carcassa in putrefazione. Berlusconi era diventato la rappresentazione di tutti i suoi fallimenti, cosa vera solo in parte, ed era secondo lui la causa del crollo dell’impero creato da suo padre, che un bel giorno si era dissolto nel nulla. Per capire questa storia bisognerebbe tornare indietro nel tempo, alla Milano degli Anni 70, quando l’azienda di famiglia, la Facchin & Gianni, la più importante impresa di costruzioni di Milano, aveva iniziato a navigare in cattive acque per delle storie di terreni e licenze non concesse. Esattamente un milione e 400 mila metri quadrati a Peschiera Borromeo che l’azienda di mio nonno aveva acquistato per fare concorrenza alla Edilnord di Silvio Berlusconi e alla Beni Immobili di Anna Bonomi Bolchini, che in quello stesso periodo avevano costruito le verdissime cittadine satellite San Felice e Milano 2. Per capire a fondo questa storia bisognerebbe consultare atti processuali, concordati fallimentari, leggere libri d’inchiesta; si troverebbero dentro tutti gli ingredienti per farci un film, o una serie tv. Una storia all’interno della quale ci furono corruzione politica, fiumi di soldi, boss della mafia e oscuri faccendieri. E sì, anche Berlusconi, interessatissimo pure lui a quel milione di metri quadri alle porte di Segrate. In famiglia per molto tempo si è vociferato che per fare un favore al costruttore Berlusconi, la Facchin & Gianni sia stata lasciata fallire. Teoria avvalorata anche da diverse inchieste che instillavano il dubbio che uno dei suoi uomini di fiducia fosse stato mandato appositamente da lui stesso a lavorare per un diretto concorrente del mercato immobiliare per agevolare la vendita, a prezzo di saldo, dei terreni in questione. Basterebbe googolare “Berlusconi” con i nomi “Facchin & Gianni” per saperne di più, ma non è questa la sede per approfondire ulteriormente l’argomento. Fatto sta che mio padre Berlusconi non l’ha mai potuto vedere, anche se credo che in realtà non l’abbia mai conosciuto personalmente. «È un mascalzone!», diceva, seduto sul divano componibile Le Courbusier, stringendo il calice di champagne ormai vuoto, ripetendolo continuamente anche durante quel pomeriggio del 31 dicembre 2020.

In realtà io Berlusconi non l’ho mai odiato. A casa di mia nonna a Palazzo Fidia e dopo, da mia zia Pia, in Via dei Transiti, le tv in casa erano sempre accese sulle sue reti. Dal mattino alla sera. A casa mia, in via Amedeo d’Aosta, con mio fratello seguivamo tutte le partite del suo Milan. Ascoltandole alla radio la domenica pomeriggio e guardandole in televisione, il mercoledì sera, quando i campioni rossoneri si misuravano con le altre big europee nell’allora Coppa dei Campioni. Nel mio pantheon immaginario gli eroi di Bim Bum Bam, che guardavo tutti i pomeriggi tornato da scuola, si mischiavano con i giocatori del Milan. Su tutti svettava la coppia Gullit & Van Basten prima, più Dejan Savicevic, “il genio del Montenegro” poi. Se a questo aggiungo che nel momento in cui mio padre se la filò all’estero, inseguito da una serie di avvisi di garanzia che lo vedevano accusato di bancarotta fraudolenta, frode in borsa e riciclaggio di denaro sporco, proiettavo la mia idea di famiglia felice in quella di mio cugino Luciano, che con una moglie un cane Husky e due figli gemelli bellissimi, Rebecca e Simone, viveva nella perfetta Milano 3, uno dei villaggi felici costruiti da Berlusconi, il cerchio si chiude. Il mondo berlusconiano mi appariva idilliaco, in una narrazione senza sbavature che andava dai comici del Drive In ai Ragazzi della Terza C, da Mai dire Gol al Maurizio Costanzo Sciò, da Raimondo Vianello al Jovanotti sbarbato che, in boxer a stelle e strisce e con il cappellino rovesciato sulla testa, urlava «1,2,3, casino!» il pomeriggio su Italia 1. In famiglia poi si guardava tutti il TG5, tanto nelle case milanesi dei componenti del ramo materno, quanto in quelle al lago o in Piazza Vetra dei parenti dal sangue blu di quello paterno. Penso inoltre che per un periodo molti tra di loro lo votarono pure Silvio, quando scese in campo nel 94 e fondò Forza Italia, perché ancora oggi se mi impegno fatico a trovare tra quelli che mi stavano intorno un solo parente che abbia mai votato a sinistra, se si esclude (forse) mio padre con i socialisti. Ricordo ancora una sera in Corsica, nell’estate del 96, ospite a casa dei genitori di Dodo a Calvi, che io stesso 16enne fui attaccato per aver osato difenderlo in una discussione durante una cena dove per ovvi motivi mi ero scagliato violentemente contro i giudici del tribunale di Milano e in particolare contro Antonio Di Pietro, che reputavo allora il peggio del peggio. «Tuo padre è come Berlusconi», mi aveva detto Dodo, «infatti ti ha abbandonato», mi ero sentito rispondere. Poi anch’io sono cresciuto e ho iniziato a capire che lo storytelling non era esattamente attinente alla realtà ma comunque Berlusconi non l’ho mai odiato, considerando invece autentici coglioni quelli che, votandolo, gli hanno permesso per quattro volte di diventare Presidente del Consiglio.

Durante la primavera del 2005 ero considerato un’autentica rockstar negli ambienti legati al mondo della discoteca milanese. Parlavo al microfono il venerdì sera, il sabato pomeriggio e il sabato sera, nei locali più esclusivi della city, quasi tutti vicini agli ambienti della destra. Orde di ragazzini mi idolatravano quando arrivavo in bici il pomeriggio in Corso Como o la sera, quando mi trascinavo, con il cappuccio della felpa tirato su, davanti all’entrata dei locali. Talvolta la sola prova della mia presenza a una serata era il segreto del suo successo, sia che ci fossi realmente andato o meno. La gente mi conosceva con il nome di Andrea Spider e in un certo senso era il periodo in cui in me coesistevano due Andrea – uno privato e uno pubblico – che sbigottiti osservavano l’uno la bizzarra vita da celebrità dell’altro. Era un periodo in cui mi sentivo come staccato da me stesso, malgrado sorridessi di continuo e fingessi che tutto stava andando per il meglio, e che tutti mi adoravano, anche se questo era decisamente falso. Poi un giorno qualcuno mi chiese addirittura di candidarmi con Forza Italia per una qualche elezione che non ricordo e la proposta mi sembrò così assurda e fuori luogo che non la presi nemmeno lontanamente in considerazione. Un pomeriggio andai in quella che ricordo essere una specie di sezione del partito in Via Melzi d’Eril, con manifesti e foto di Berlusconi dappertutto, ma declinai gentilmente l’invito perché in fondo nonostante la mia ambivalenza morale nei confronti della politica in generale perfino io mi sarei vergognato come un ladro a mettere il mio nome di fianco a quello di Forza Italia, io, che da quando avevo 18 anni votavo convintamente Rifondazione Comunista. A dire il vero la politica non mi ha mai appassionato più di tanto, ho sempre preferito parlare di libri, di film, di dischi, anche se negli anni di PopUp per i temi trattati e gli ospiti che si sono avvicendati ai nostri microfoni, credo di aver fatto più politica andando semplicemente in onda che molti altri, magari eletti in qualche consiglio comunale o regionale. Detto questo, vedendo come sono andate le cose, (forse) avrei dovuto accettare quella candidatura in Forza Italia nella primavera del 2005, piuttosto che 10 anni dopo iniziare a lavorare per Radio Popolare.
Sicuramente con la sua scomparsa si chiude un’epoca, qualcuno ha scritto che con lui finisce ufficialmente la Seconda Repubblica. Senz’alcun dubbio, per quanto mi riguarda, decreta la definitiva conclusione della mia giovinezza, ed è questa la cosa che più mi fa effetto questo sabato pomeriggio di metà giugno mentre in barca, in rada a Paraggi, fisso con sguardo malinconico il castello dove abita suo figlio Dudi
Snobbato da una certa upper class milanese, preso in giro dall’Avvocato Agnelli, osteggiato dai vertici di Confindustria anche nel periodo in cui era l’uomo più potente d’Italia, se ne è andato così, dopo un funerale mega cafonal nel Duomo di Milano, che resterà scolpito nella memoria come l’evento pop del secolo piuttosto che impresso nella storia della politica italiana, Silvio Berlusconi. L’uomo dei mille processi, dei conflitti d’interessi, delle zone d’ombra, delle figure imbarazzanti, delle “olgettine”, delle 18enni di Casoria, delle cene eleganti, delle cinque Coppe dei Campioni, delle televendite e compagnia bella. Esce di scena così, in pompa magna, beatificato da quasi tutti gli organi di stampa e omaggiato dallo Stato addirittura con la proclamazione del lutto nazionale, mentre già si parla di intitolargli stadi, piazze e vie. Sicuramente con la sua scomparsa si chiude un’epoca, qualcuno ha scritto che con lui finisce ufficialmente la Seconda Repubblica. Senz’alcun dubbio, per quanto mi riguarda, decreta la definitiva conclusione della mia giovinezza, ed è questa la cosa che più mi fa effetto questo sabato pomeriggio di metà giugno mentre in barca, in rada a Paraggi, fisso con sguardo malinconico il castello dove abita suo figlio Dudi, che fin dall’infanzia è stato meta di pirateschi arrembaggi a nuoto e oggetto di leggende oscure e notevolissime. Penso a questo prima di tuffarmi in mare, tornare su, asciugarmi, chiamare Ofelia e chiederle di aprire una bottiglia di champagne alle tre del pomeriggio.

Per il resto del week end mi sono davvero impegnato per fare in modo che le cose andassero per il verso giusto. La barca a vela che avevamo affittato, un Grand Soleil 45 disegnata dallo studio Judel/Vrolijk, era perfetta. Ofelia e io siamo andati a piedi a Santa, seduti ai tavolini del Sabot abbiamo progettato di andare a Venezia per il suo compleanno, o forse a Parigi. Abbiamo fatto lunghe nuotate. Abbiamo parlato solo di cose romantiche, di sposarci a New York e altre sciccherie del genere. Ogni tanto le leggevo ad alta voce qualche stralcio di Addio alle armi (il mio Hemingway preferito), o le commentavo Guerra di Céline, il manoscritto ritrovato dello scrittore francese che avevo appena recensito sulle pagine della cultura del Messaggero. La sera sorseggiavamo bourbon, e poi ancora champagne, dentro alti bicchieri di plastica fatti a flûte con sopra disegnati dei fiori di ibisco e io mi perdevo a fantasticare su un completo di lingerie costosissima che le avevo regalato tempo prima che lei di tanto in tanto aveva indossato. Dopo aver fatto il bagno a largo di Portofino la sera tardi tornavamo a bordo e ci accoccolavamo in cabina, avvolti in una calda coperta di cachemire, a guardare la fine di Succession sull’iPad. Ma chissà perché son rimasto sempre vittima per tutto il week end di una strana malinconia, non riuscendo mai a togliermi dalla testa l’ultima immagine di Berlusconi apparsa sui giornali, fotografato con un bambino in un bar di Milano 2 e continuando a domandarmi incessantemente il motivo per il quale quella fotografia mi ricordava così tanto mio padre l’ultima volta che lo vidi prima che morisse.