Milano, 24 giugno. L’altra notte ho avuto un attacco di panico. Un attacco di panico come non me ne venivano tipo da 15 anni. Un attacco di panico così violento che mi ci sono volute tipo tre ore per riprendermi. Il cuore mi batteva così forte che pensavo mi potesse uscire fuori dal petto e per quanto mi impegnassi non c’era maniera di placarlo, di rallentarlo. In nessun modo. Mi rannicchiavo in fondo al letto, allucinato, e pensavo: «Sto per morire, sto per morire», poi mi alzavo e, senza sosta, iniziavo a girare per casa come un pazzo, in mutande, con gli occhi vitrei e lo sguardo fisso che controllava ossessivamente il numero dei battiti sullo schermo dell’Apple Watch.
«Il mare cura», mi ha detto DFA al telefono da Tel Aviv, «vai tranquillo, vedrai che ti farà bene». E in effetti non ha avuto torto, perché in barca, per lunghi momenti, ho avuto l’illusione di essermi ripreso quasi completamente
Poi, a un certo punto, è arrivata a casa Ofelia e mi ha trovato sdraiato per terra, su uno dei tappeti del salotto, tremante, con le mani sulla faccia, ed è stata con me fino a quando, grazie a Dio, sono riuscito a riprendermi, non so ancora come. Così la mattina dopo, ancora sconvolto ma sufficientemente calmo per tenere a freno la crisi respiratoria, sono salito sulla mercedes di Cleopatra con lei e Ofelia e sono andato al mare, per trascorrere un paio di giorni in barca, lontano da tutti, ma ho preso così tanto Xanax che il ricordo di quei giorni è soltanto una foschia nera e l’unica cosa che mi ha impedito di svegliarmi, pazzo di terrore, nel cuore della notte per tutto la durata del week end, è stato che il panico di medio livello che mi ha pulsato dentro come una luce fioca non è esploso nuovamente. «Il mare cura», mi ha detto DFA al telefono da Tel Aviv, «vai tranquillo, vedrai che ti farà bene», e in effetti non ha avuto torto, perché in barca, per lunghi momenti, ho avuto l’illusione di essermi ripreso quasi completamente. «Tranquillo tranquillo tranquillo», mi ripetevo, e se non ero troppo fuori mi lanciavo in mare e nuotavo nella baia di Paraggi in mezzo ad una moltitudine di pesci ultracolorati che sembravano essere stati disegnati da Horiyoshi III, fino a quando non ero troppo stanco e allora tornavo sul ponte della barca, mi sdraiavo sul tek, e aspettavo di asciugarmi al sole.
Poi sono tornato a Milano per vedere a San Siro il concerto dei Rolling Stones, in forse fino all’ultimo, perché Mick Jagger si era preso il Covid. E lì in tribuna, sugli spalti del Meazza, con Ofelia e Roffredo e Zorny, mentre gli Stones suonavano Paint it black, finalmente mi sono sentito bene e ho realizzato che ora erano loro la mia famiglia e finché mi fossero stati accanto non avrei avuto nulla da temere, non sarei mai stato più solo. Una forza invisibile mi spinse verso quelle considerazioni, fu una cosa che percepii fisicamente, mentre Mick Jagger, scatenato, cantava davanti a 60 mila persone «I have to turn my head, until my darkness goes», e io sentii una piccola fitta al cuore.
Lì in tribuna, sugli spalti del Meazza, con Ofelia e Roffredo e Zorny, mentre gli Stones suonavano Paint it black, finalmente mi sono sentito bene e ho realizzato che finché mi fossero stati accanto non avrei avuto nulla da temere
I giorni seguenti mi videro tornare dietro al banco della Belle Aurore, firmare un mega articolo in apertura sulle pagine della Cultura de Il Messaggero e condurre una trasmissione live al Madama Hostel con Alb, il mio socio radiofonico, serata di cui forse parlerò più avanti perché adesso non ne ho la forza e ci sono ancora troppe cose in ballo (che tra l’altro potrebbero fare una grande differenza), che ancora non è il momento di svelare. Poi sono tornato al mare e ho provato nuovamente a imparare a respirare.
Portofino, 25 giugno. «Ma questa roba della barca a vela?». «Ma se sei così ricco, perché lavori alla Belle Aurore?». «Che vita incredibile che hai». «Hai molto coraggio a esporti così». «Leggo le tue storie tutte le settimane, sono tipo una droga». Sono solo alcune delle frasi che mi sento ripetere ultimamente dalla gente che non mi conosce e che magari ha letto qualche mio racconto su Tag43. Solitamente faccio il gigione, ringrazio, evito di puntualizzare, anche se una delle cose più azzeccate riguardo a questo argomento me l’ha scritta Rupert qualche settimana fa: «Nei tuoi racconti parli di te in modo molto profondo», e in definitiva credo di essere completamente d’accordo con lui, perché il punto del discorso è proprio questo. Ed è a questo che penso adesso, mentre scrivo sulla tastiera dell’iPad, seduto, scalzo, in un bar di Portofino, con indosso un paio di short Tommy Hilfiger e una t-shirt nera, con sopra disegnata la linguaccia dei Rolling Stones tinta di rossonero e con la scritta Simpathy for the devil.
Mi bruciano le spalle perché non ho ancora imparato a mettermi bene la protezione solare ma, se mi guardo bene, riflesso nello specchietto di una vespa parcheggiata a pochi metri di distanza, tutto sommato, mi sembra di non essere affatto male. Più che altro perché credo di essermi tolto, almeno in parte, la patina grigioverde milanese che avevo appiccato sulla faccia ormai da mesi. Ofelia è rimasta in barca, io ordino il secondo caffè, mi accendo l’ennesima sigaretta e cerco di farmi venire l’ispirazione mentre, scrollando sull’iPhone il wall di Instagram, vedo una frase condivisa da Sofia che recita più o meno così: «per me contano i dischi, i bagni in mare, l’umanità», ed è proprio in quel momento, mentre mi lascio prendere dall’ispirazione che vedo scendere da un gozzo di legno un uomo, con un abito di lino ed un panama in testa, che si dirige a grandi passi verso di me. L’Arnaldo. «Chi è lui?», chiesi a DFA anni fa, indicando quell’uomo di mezza età simile a Bill Murray, «Lui è l’Arnaldo, fratello, i miei l’hanno preso a stare con noi dopo che ha tentato il suicidio per una brutta storia di cuckold», mi rispose. Ed ecco che, inaspettatamente, proprio quando sto per iniziare a narrare nel taleS settimanale delle storie di sesso spinto con Giada, una mia ex compagna di classe dei tempi del Volta che mi è venuta in mente l’altro giorno mentre bighellonavo in bici in giro per la city, che tutto si ferma e un colpo di scena cala su Piazza Martiri dell’Olivetta, in questo calorosissimo pomeriggio estivo di fine giugno.

[milano, agosto 2004. Nello stereo una cassettina di musica house con in console Little Louis Vega al Cocoricò di Riccione. La voce in sottofondo è quella di Maurizio Monti. A casa la finestra è aperta su via Tiepolo mentre io bevo birra weiss in sublimi bicchieri oblunghi marchiati Paulaner e fumo l’ennesimo joint assassino con la testa piena zeppa di pensieri a dir poco distorti. Sulla Fred Perry è ancora impregnato il suo odore, saranno all’incirca le quattro e mezzo del mattino. Domani in programma sbattimenti su e giù per la città, sempre più calda e vuota. È ufficialmente iniziata “la settimana della resistenza”, poi se Dio vuole partirò anch’io per Sestri Levante e poi dritti a Tenerife, con il fido Baj e gli altri, fino ai primi di settembre. Sveglia ore nove e mezza, appuntamento al Credit Suisse, poi biblioteca in Festa del Perdono, taglio di capelli a zero in onore a Marlon Brando, pranzo dalla zia Pia e doppio appuntamento. Il pomeriggio con la sbarbina fiordilatte Ylenia, conosciuta in discoteca al Casablanca, e la sera “amarcord” con Lucilla, appena rientrata dalla Spagna. Giada arriva al Picaflor intorno alle 6 e mezza del pom. Capelli biondastri raccolti in una coda di cavallo, lieve abbronzatura, occhi azzurrissimi. Con Giada ci conosciamo da circa 10 anni, dai tempi del liceo Volta. La prima volta che l’ho vista le ho chiesto di sposarmi, negli anni abbiamo avuto qualche flirt ballerino, mai nulla di serio. Ora si è sfidanzata da poco ed è appena tornata, dopo la laurea allo IULM in Scienze della Comunicazione, da uno stage a Venezia alla Fondazione Cini. Come mi vede uscire dall’ufficio del bar dove lavoro in Fred Perry bianca, jeans e infraStile ai piedi sfodera un sorriso a 36 denti. «Ehi, Andre», «Non ci credo, Giada!», dico, sfoderando uno dei miei sorrisi da copertina. «Passavo di qui, e volevo confermare il nostro appuntamento di mezzanotte a La Belle Aurore». «Sei splendida, chérie», mi avvicino, la bacio sulle guance, sento il suo odore, mi si rizza immediatamente l’uccello. Poi, dopo il turno al Picaflor e svariate birre weiss alla Belle Aurore, seguite da un imprecisato numero di joint rollati con perizia e mestiere, finiamo da lei in via Morgagni. Le coinquiline sono in vacanza e un pizzico di angoscia mi sale nel momento in cui lei apre la porta di casa. Nel frattempo dallo stereo in console è salito Massimino Lippoli e io penso a quanto in passato questa stronza mi abbia fatto sclerare. Penso anche a Giulia, l’Inavvicinabile, in vacanza con il fidanzato in qualche cazzo di isola greca e vorrei togliermi la vita.
Rimaniamo attaccati per un po’, a un certo punto io mio stacco di colpo, e dopo circa un’oretta di moine e sigarette scendo in strada, prendo la bici e torno verso casa, magnifico e simile a Marcello Mastroianni ne La dolce vita di Fellini, mentre Milano sembra la New York di Carpenter e in giro ci sono solo disperati, travestiti e licantropi
Appena entrati in casa Giada barcolla sulle gambe giovani e nervose, accende la luce di camera sua e, totalmente sconvolta, si butta sul letto. Un fugace sorriso mi dice che praticamente è pronta a tutto, anche se ad essere sincero pure io devo ammettere che sono piuttosto sdivanato. Troppe birre e troppe canne. Comunque la mangio con gli occhi e così raccolgo le forze e mi avvicino, mi siedo sul letto e poi mi metto a cavalcioni su di lei. Avido la bacio, le tolgo la maglietta e dato che sotto è senza reggiseno mi metto a succhiarle i capezzoli. Le sfilo i pantaloni di lino leggeri e le mutandine, poi la stendo supina e le apro le gambe spingendogliele indietro in modo da averla a disposizione. Mi infilo un dito in bocca, poi glielo faccio scivolare in mezzo alle gambe, più sotto, fino a toccarle il buco del culo, e premo leggermente. Ce l’ho duro come una roccia e nel frattempo mi sono abbassato i jeans alle caviglie. Resto così, con il culo per aria mentre lei mi spinge a leccarle di nuovo i capezzoli. Poi mi sposto leggermente e iniziamo a baciarci, a succhiarci famelici e lei mi prende il cazzo e se lo sfrega contro le grandi labbra e poi glielo metto dentro e inviamo a muoverci, prima piano e poi sempre più forte, fino a quando veniamo quasi contemporaneamente e io collasso, esausto e sudato, tra le lenzuola, che una volta erano di suo padre. Rimaniamo attaccati per un po’, a un certo punto io mio stacco di colpo, e dopo circa un’oretta di moine e sigarette scendo in strada, prendo la bici e torno verso casa, magnifico e simile a Marcello Mastroianni ne La dolce vita di Fellini, mentre Milano sembra la New York di Carpenter e in giro ci sono solo disperati, travestiti e licantropi.]
Due settimane fa DFA non è venuto al funerale di mio padre a Moltrasio perché era a Tel Aviv, in tournée, impegnato a presentare uno dei vini naturali che coltiva nelle vigne di proprietà della sua famiglia nel Carso, dove produce la Vitoska più buona del mondo. Vino che tra l’altro, come ho già detto, è anche il preferito in assoluto di Ofelia. Con DFA (la cui identità viene protetta da questa sigla perché proviene da una famiglia troppo in vista), ci sentiamo comunque tutti i giorni e se dovessi scegliere un fratello, tra i vari che ho avuto nella vita, sarebbe sicuramente lui, inseparabili, dai tempi del collegio a Le Rosey. Se chiudo gli occhi ci vedo sempre insieme, durante i migliori anni della nostra vita, come direbbe qualcuno, anche se a dirla tutta, forse, sono stati i peggiori, perché io e DFA eravamo sempre scontenti, strafatti, drogati, infelici, per tutto il periodo della nostra giovinezza, alla perenne ricerca di un equilibrio che forse abbiamo faticosamente trovato, a distanza, successivamente, grazie alle nostre donne. Lea e Ofelia. DFA, che Ofelia chiama «la tua fidanzata», resta una delle persone alle quali tengo di più al mondo, anche se non ci vediamo mai e non passiamo insieme il tempo che vorremmo. Sono stato il testimone al suo primo matrimonio e sono il padrino di sua figlia Nausicaa, che mi chiama zio e nella vita è stata l’unica bambina a cui ho voluto bene, anche se oggi è grande e frequenta la prima liceo a Barcellona. I suoi genitori sono in assoluto la famiglia che avrei sempre desiderato avere e che più ho sentito vicina nei momenti in cui giravo sottosopra, con il cervello simile a quello di un cavallo strafatto di coca. Grazie a DFA ho conosciuto il mio psycho, che mi ha aiutato a svoltarmi l’esistenza. DFA è la prima persona che ho chiamato quando è morta mia zia, quando è mancato mio padre, quando è esploso il cervello a mio fratello, quando ho avuto il primo attacco di panico. Questo per dirvi regaZ che la vista improvvisa dell’Arnaldo qui, adesso, a Portofino, suona quantomeno sinistra.
Se chiudo gli occhi ci vedo sempre insieme, durante i migliori anni della nostra vita, come direbbe qualcuno, anche se a dirla tutta, forse, sono stati i peggiori, perché io e DFA eravamo sempre scontenti, strafatti, drogati, infelici
L’Arnaldo mi saluta, senza troppi convenevoli e si siede di fronte a me. Ordina un caffè, appoggia sul tavolo una cartelletta di pelle nera e mentre lo osservo lo trovo più vecchio, più flaccido, più distratto, di come lo ricordavo. «Mi spiace disturbarla signor Andrea, ma ho delle notizie urgenti da comunicarle e ho saputo che si trovava qui a Portofino, ospite in barca da amici», dice l’Arnaldo. «Che succede Arnaldo, mi fa preoccupare così, che succede?», chiedo, con voce stridula.
Una pausa. «Ehm, signor Andrea». Arnaldo pare circospetto. «Ehm, sì?». «Il signor D», Arnaldo si schiarisce la gola. «Potrebbe aver avuto un incidente a Tel Aviv, in macchina, di ritorno da Gerusalemme». «D?», chiedo. «Potrebbe? In che senso? Che cosa è successo?». Arnaldo tira fuori una fotografia dalla sua cartelletta, si avvicina circospetto e me la mostra. Potrebbe essere una pubblicità di Armani fatta da Herb Ritts: un paesaggio deserto, la bella faccia di DFA corrucciata ma seducente, mascella stretta e labbra increspate con indifferenza, occhiali da sole Persol. Nella foto sembra che DFA stia scendendo da un furgone, non sa che lo stanno fotografando, impugna una mitragliatrice Skorpion e indossa una maglietta di Paul Smith. Mentre la osservo prendo uno Xanax che mi va di traverso poi mastico una Mentos per togliermi il cattivo sapore dalla bocca. Prendo un bel respiro e cerco di calmarmi, deglutisco e mi schiarisco la gola prima di chiedere: «Che diavolo sta dicendo Arnaldo?». Arnaldo tace, finge di consultare un documento nella sua cartelletta e alla fine, rassegnato ripete: «Stiamo cercando di capirlo». Io comincio a sclerare, ad agitarmi sulla sedia. Mi frugo in tasca in cerca di un altro Xanax e continuo a cambiare posizione per evitare che le braccia e le gambe mi si addormentino. Poi mi accendo una sigaretta ma ha un sapore così cattivo che non riesco a tenerla tra le dita e quando la lascio cadere sul pavimento rischio di bruciarmi i piedi dato che sono scalzo. «Signor Andrea», mi scuote Arnaldo. «Cosa è successo?», singhiozzo. «Quanto tempo fa ha sentito il signor D l’ultima volta?».