Niente guerriglia interna. Almeno non per ora, perché dopo Elly Schlein ci potrebbe essere solo il diluvio. Dall’assemblea nazionale del Partito democratico, il vero colpo di scena è arrivato da Stefano Bonaccini, fresco di elezione alla presidenza del Pd. La segretaria ha confermato quanto previsto: uno spostamento a sinistra, una linea di opposizione intransigente verso il governo Meloni, tanti stimoli sui diritti sia sociali sia civili. Infine la volontà che ha manifestato qualsiasi leader dem di superare le correnti e i capibastone. Un intervento caloroso, che ha entusiasmato i sostenitori, come da copione. E invece c’è chi è andato in direzione contraria rispetto alla tradizione degli sconfitti: Bonaccini ha garantito lealtà dal palco, confermando la posizione in qualsiasi sede. Anche lontano dai riflettori mediatici, smentendo la tentazione di fare il capo della minoranza e il controcanto solo per indebolire l’ex avversaria, tanto da provocare un senso di smarrimento tra chi ha votato la sua mozione.

L’idea di un confronto con le realtà produttive del Paese
«Non ci sarà il logoramento quotidiano a cui siamo abituati», è la sintesi del ragionamento che il presidente della Regione Emilia-Romagna ha ripetuto a chi, in privato, ha chiesto quali fossero le sue intenzioni. «Se continuiamo con la guerriglia interna, fine a se stessa, il Pd arriverà alla scomparsa», ha teorizzato Bonaccini, facendo esercizio del pragmatismo emiliano. Durante l’intervento alla Nuvola di Fuksas, a Roma, ha infatti dimostrato che darà ragione alla segretaria, e lo ha fatto molte volte, mettendo tuttavia sul piatto delle proposte, come quella di avviare un viaggio lungo il Paese per un confronto con le realtà produttive sul modello di quanto fatto in passato da Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta. Idee avanzate palesemente e non fatte circolare, dietro le quinte, per evidenziare eventuali mancanze della leadership. Insomma, piaccia o meno, il partito per Bonaccini «è all’ultima chiamata», cominciando con l’orizzonte delle elezioni Europee 2024, che Schlein ha già messo nel mirino. È consapevole che saranno il banco di prova della sua leadership. Se dovessero andare male, il rischio sarebbe lo sfaldamento dem.

Non è escluso che gli ex renziani si mettano in proprio…
Una schleinizzazione totale del governatore, dunque? Ovviamente no. Ma lo sconfitto alle Primarie è fiducioso sul dialogo con la segretaria. L’ha conosciuta negli anni alla guida della Regione, apprendendo che non è certo dogmatica nella gestione del potere. Solo che la corrente dei riformisti, la Base riformista del presidente del Copasir Lorenzo Guerini e dell’ex ministro Luca Lotti, è rimasta spiazzata, immaginando un ritorno al vecchio schema della segreteria di Nicola Zingaretti. Un lavorìo di costante opposizione che, come è noto, ha spinto l’ex presidente della Regione Lazio alle velenose dimissioni per la «vergogna» nei confronti del partito che guidava. Cosa faranno ora gli ex renziani è da vedere. Non è escluso che si mettano in proprio, prendendo un po’ le distanze da Bonaccini. Di sicuro al Sud la segretaria è attesa da un fuoco di fila dei “cacicchi”, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, a cui l’affondo frontale di Schlein non è, per usare un eufemismo, affatto piaciuto.

Schlein vuole coinvolgere Quartapelle e Bonafè
La composizione dei primi organismi dirigenziali ha inevitabilmente creato qualche mugugno, soprattutto tra chi si attendeva una sorta di rivoluzione simil-rottamatoria. Ma nell’inner circle di Schlein invitano alla prudenza. «Si parla tanto dei ruoli nella segreteria, come se fossero ministeri di un governo, dimenticando che questo organismo è stato scarsamente valorizzato negli ultimi anni», riferisce una fonte vicina alla leader. Ora «l’obiettivo non è solo quello di incasellare i nomi nella segreteria, ma di renderla un mezzo di rilancio del partito, altrimenti gli incarichi sono solo scatole vuote». Un’operazione ambiziosa, che comunque non oscura la strategia di Schlein: coinvolgere i profili che si sono dimostrati più dialoganti nei suoi confronti, senza pregiudizi, e fra i vari nomi ci sono quelli delle deputate Lia Quartapelle e Simona Bonafè; quest’ultima, non a caso, vede in rialzo le quotazioni per il ruolo di capogruppo alla Camera. Una soluzione che eliminerebbe l’alibi delle proteste da parte dei riformisti, che però chiedono di più: indicare Alessandro Alfieri come capogruppo al Senato. Solo che in questo caso non si tratta di una figura di frontiera tra le due mozioni, bensì di uno dei leader della corrente degli ex renziani.
