Non c’è solo il Covid a condizionare le Olimpiadi di Tokyo 2020. Come quasi tutti i Giochi che si rispettino, anche il torneo giapponese ha avuto la sua buona dose di problemi “geopolitici”. Basti pensare al judoka algerino Fethi Nourine, ritiratosi dalla competizione per non scontrarsi con un atleta israeliano: un episodio che si ripete praticamente da sempre, quando atleti dello Stato ebraico si ritrovano ad affrontare avversari dei Paesi ostili a Tel Aviv, e che fa ripiombare la bolla dello sport nella realtà delle complesse relazioni internazionali. Sarà che si svolgono in Asia, ma finora questi Giochi hanno dato un quadro piuttosto accurato dei difficili rapporti tra i giganti del continente. Vediamo perché.
Corea del Sud-Giappone, tensione alle stelle
Quelli tra Corea del Sud e Giappone non sono mai stati rapporti semplici, se si pensa che fino al 1945 la penisola era sotto l’occupazione militare di Tokyo. E non lo sono tuttora: il primo ministro sudcoreano Moon Jae-in non ha partecipato alla cerimonia di apertura dei Giochi, a differenza di molti suoi colleghi internazionali, proprio per i rapporti complicati che i due Paesi vivono da qualche anno. Sei coreani su 10 si erano detti contrari alla presenza del premier a Tokyo, e come se non bastasse il Comitato organizzatore locale aveva deciso di usare una mappa del Giappone comprendente le isole Dokdo, formalmente coreane ma in passato sotto il controllo nipponico. Si tratta di un arcipelago di scogli con pochissimi abitanti ma con un mare attorno molto pescoso, posto a 200 chilometri sia da un Paese che dall’altro, che entrambi rivendicano. La scelta ha molto indispettito Seul, ma non è finita qui: il 16 luglio, un funzionario dell’ambasciata giapponese in Corea del Sud ai microfoni della tivù giapponese JTBC aveva offeso a Moon Jae-in definendo i suoi sforzi per migliorare i rapporti tra i due Paesi una «masturbazione». Il premier giapponese Yoshihide Suga ha bollato quelle parole come «inappropriate», ma Seul ha deciso di non passarci sopra e bloccare l’organizzazione di un incontro bilaterale – al quale le diplomazie stavano lavorando – che avrebbe potuto segnare un passo non di poco conto. Le relazioni erano peggiorate già durante la presidenza di Shinzo Abe, primo ministro giapponese dal 2012 al 2020. Con lui, i due Paesi iniziarono nel 2019 una guerra commerciale che portò a un reciproco boicottaggio, con conseguenze anche importanti sulle economie. Lo sport, in questo senso, non ha addolcito le cose. Anzi, se possibile le ha accentuate.
Retweeting this since President Moon Jae-in has decided that he won't be visiting Tokyo after all. https://t.co/yUqPMmYRjW
— John Lee (@koreanforeigner) July 20, 2021
Cina, Giappone e il nodo Taiwan
A pochi giorni dall’inizio dei Giochi, poi, il Giappone aveva pubblicato il suo annuale Libro Bianco sulla difesa, in cui per la prima volta veniva sottolineata l’importanza dell’indipendenza di Taiwan per la sicurezza nella regione. Parole che Pechino ha definito «sbagliate e irresponsabili», mettendo l’accento sulla necessità della riunificazione con la «provincia ribelle», espressione usata per definire l’isola. Nell’ultimo periodo Xi Jinping ha aumentato a dismisura le esercitazioni militari attorno Taiwan, una prova di forza che le autorità di Taipei non hanno gradito e che, anzi, hanno visto come preparazione a una possibile guerra. La pace invece interessa tantissimo a Tokyo, visto che dallo stretto di Taiwan passa la maggior parte dell’energia e delle scorte alimentari di cui ha bisogno il Paese. Come si spiegano allora le parole del Libro Bianco, non di certo casuali? Probabilmente con la volontà della autorità nipponiche di «isolare» la Cina. Non una mossa scontata, visto che Tokyo negli ultimi anni era sempre stata abbastanza moderata nei confronti dell’ingombrante vicino. E attenzione, perché dal punto di vista sportivo ci potrebbe essere un’altra dimostrazione forte: a febbraio 2022 Pechino ospita le Olimpiadi invernali e sono già cominciate a circolare voci di un boicottaggio giapponese.
Hong Kong gioca da indipendente, ma se vince l’inno è cinese
A proposito di Cina e province dissidenti, queste Olimpiadi hanno riproposto la scomoda situazione degli atleti di Hong Kong. Piccolo prologo: da tempo Pechino, con la legge sulla sicurezza nazionale del 2020, sta cercando di riappropriarsi giuridicamente di un territorio sì cinese, ma autonomo. In questa prospettiva non deve essere facile da digerire, per il più grande partito comunista al mondo, vedere atleti gareggiare sotto la bandiera di Hong Kong, quella rossa con il fiore bianco a cinque petali. Fino a qualche giorno fa, a parte la sfilata degli sportivi durante le cerimonie di apertura, Pechino aveva avuto poco di cui imbarazzarsi, visto che l’ultimo oro di un hongkonghese risaliva ad Atlanta ’96 (Lee Lai Shan nella vela) e l’ultima in assoluto a Londra 2012, il bronzo di Lee Wai Sze nel ciclismo su pista. Poi, Cheung Ka Long ha battuto il nostro Daniele Garozzo nella finale del fioretto singolare, e il mondo ha assistito a una scena insolita: al momento della consegna delle medaglie, la bandiera a issarsi più in alto è stata quella di Hong Kong, ma nello stadio ha risuonato l’inno cinese. Nel giugno 2020 il parlamento di Hong Kong aveva approvato una legge per punire chi insulta La Marcia dei Volontari, inno ufficiale della Repubblica popolare, con pene fino a tre anni di carcere e 50 mila dollari di multa. Un provvedimento che Amnesty International ha definito «un insulto alla libertà d’espressione», e che rientra nella più complessa strategia di “assorbimento” della provincia da parte di Pechino.
[26 July 2021 🇭🇰🌟🎍 #Tokyo2020 #オリンピック #東京オリンピック 🤺] Hong Kong’s top male #fencer #CheungKalong 🏅has claimed gold at the #TokyoOlympicGames – after defeating the reigning Olympic champion, #DanieleGarozzo of Italy, 15-11 @Cheungkalongg pic.twitter.com/08q87lzK8b
— Dominic Watanabe (@dominicsg) July 26, 2021