«In piazza Santo Stefano le assi del pavimento scricchiolavano, e ancora adesso mi manca quella sensazione di trasmettere d’estate con la finestra aperta, da cui guardavamo calare il sole», scrive Marina Petrillo nel libro Vedi alla voce Radio Popolare. E, anche se io nella sede di piazza Santo Stefano non ci sono mai stato né tantomeno ho mai visto in faccia Marina Petrillo, queste sue parole mi sono rimaste appiccicate addosso come se le avessi scritte io. Penso a questo mentre trasmetto, seduto di fronte ad Alb, in un furgone adibito a studio radiofonico, l’ultima puntata di PopUp, parcheggiati davanti al Madama Hostel, mentre in onda suona, a un volume assordante, un disco dei Comet is coming e uno dopo l’altro passano i messaggi di affetto che abbiamo ricevuto da amici, ospiti, ascoltatori e collaboratori vari.
Da sette anni e mezzo Radio Popolare è la mia radio, quella dove trasmetto il mio programma in coppia fissa con Alb, il mio socio, sodale e compagno di mille avventure
In piazza Santo Stefano la radio si era trasferita nel 1985, in una malandata casa di ringhiera che una radicale trasformazione ha trasformato oggi in un palazzo di lusso. La leggenda narra che agli studi al secondo piano si accedesse tramite una stretta scala, dopo aver reso omaggio a una madonnina murata. Oggi Radio Pop è in uno stabile in Via Ollearo, una strada cieca che termina sulla cinta ferroviaria che protegge il percorso delle Nord tra Cadorna e Bovisa, e gli studi sono lontani parenti di quelli delle vecchie sedi, poiché al posto delle sferraglianti macchine da scrivere della redazione, dei piatti, dei registratori a nastro e dei vinili, ci sono computer su tutte le scrivanie, playlist e registrazioni elettroniche e perfino un auditorium, dedicato a Demetrio Stratos, per i concerti dal vivo e le immancabili assemblee della cooperativa. Da sette anni e mezzo Radio Popolare è la mia radio, quella dove trasmetto il mio programma in coppia fissa con Alb, il mio socio, sodale e compagno di mille avventure.

«I’m a deejay. I’m what I play», diceva uno bravo. Dj, che letteralmente significa “disk jockey” (fantino del disco), è una figura che si sviluppa in Francia durante l’occupazione nazista. Il primo luogo a utilizzare il termine dj infatti fu La Discothèque, un piccolo bar di Rue Huchette nella Parigi occupata. Gestire una discoteca a Parigi a quei tempi era considerato un grande gesto di disobbedienza civile e fu proprio all’epoca che nacque la leggenda delle discoteche come posti di ritrovo frequentati da fuorilegge e banditi. Il primo dj della storia ad avere un certo rilievo invece è considerato ancora oggi l’inglese Jimmy Savile, alla cui incredibile storia, di recente, Netflix ha dedicato un documentario. Si narra che fu proprio Savile a inventare la discoteca come la conosciamo oggi, intesa come luogo di ritrovo per persone che ballano al ritmo della musica, suonata da un dj che appoggia i vinili sul grammofono. Da allora Jimmy Savile divenne una vera autorità nel mondo della musica e dello spettacolo. Fatto anche Sir dalla Regina raggiunse una popolarità immensa, fino a quando fu travolto da un incredibile scandalo a luci rosse che esplose, poco dopo la sua morte, nel 2011, a 84 anni. Nel documentario di Netflix, alla domanda «che cosa la spinse a intraprendere questa professione?», Savile rispose: «Mi piacevano i dischi, la musica pop e le belle ragazze», e se ci ripenso fu lo stesso anche per me, quando, a 18 anni, misi piede per la prima volta dietro la consolle di un locale. Dopo i fasti da pierre di un paio di discoteche minorili, il Madame Claude di Piazzetta Giordano e lo Stage di via Manzoni, avevo deciso di smettere di distribuire inviti e volantini e l’occasione mi fu data grazie all’intuizione di Alessandro Francia, un mio compagno all’Istituto Pascoli di via Poerio, una costosa scuola per delinquenti specializzata in recupero anni, che a un certo punto mi trasformò in vocalist. «Sto per riaprire lo Stage di via Manzoni», mi disse, una mattina in piazza Leo, «ti andrebbe di darmi una mano?». Iniziò così la mia carriera in discoteca da vocalist, e poi da dj, che durò all’incirca una decina di anni, nei locali di mezza Milano, tra venerdì sera, sabati pomeriggi e sabati sera. Diventai un’autentica rockstar, il mio appartamento in via Tiepolo puzzava costantemente di hashish, marijuana e freebase ma dopo un po’ la mia brama di celebrità e droghe mi si ritorse contro. Fu così che da un giorno all’altro decisi di mollare tutto. Non ne potevo più dei locali frequentati dai figli dei massoni e delle principessine naziste. Un noto psicologo, da cui avevo preso l’abitudine di andare, ricordo che un giorno mi disse: «Ma sei sicuro di voler chiudere così il discorso con la musica? È sempre stata la tua più grande passione». L’ultima apparizione che feci in discoteca fu al Nepentha, nell’inverno del 2008, durante una specie di serata revival dedicata alle vecchie glorie dei sabati pomeriggi milanesi. Avevo 28 anni.
Nel documentario di Netflix, alla domanda «che cosa la spinse a intraprendere questa professione?», Savile rispose: «Mi piacevano i dischi, la musica pop e le belle ragazze», e se ci ripenso fu lo stesso anche per me, quando, a 18 anni, misi piede per la prima volta dietro la consolle di un locale
A riaccendere la luce fu, nel settembre del 2010, Alberto Nigro, il classico amico di amici, con cui venni messo in contatto da conoscenze comuni, che all’epoca stava fondando RadioAttiva, una trasmissione di informazione che voleva proporre a Poliradio, la radio web del Politecnico di Milano, situata una palazzina dopo il cortilone dell’ateneo in Piazza Leonardo da Vinci. A Poliradio trovammo un’ambiente fantastico, degli studi all’avanguardia e un manipolo di nerd, appassionati di radiofonia, che già lavoravano per grandi network nazionali. Con Alb la sintonia non fu immediata ma si affinò con il passare del tempo. Il nostro obiettivo era quello di trattare temi affini a quelli di Radio Popolare mixando il tutto con la musica pop tipica delle radio commerciali. Stacchi brevi, tanti dischi, dibattiti politici, approfondimenti, talk-show, temi culturali, interviste, rassegne stampa e, soprattutto, un ritmo forsennato. Ci ascoltavano in otto ma noi andavamo in onda come se fossimo su Radio Deejay, e in breve tempo il mondo si accorse di noi. Iniziammo a finire sui giornali e a organizzare serate in giro per i locali della zona. Fu grazie ad un’idea di Ofelia se iniziammo a fare la radio live, durante un aperitivo in un bar di Porta Venezia, che si chiamava Vinile, davanti a una birra mi disse: «Che ne pensi di organizzare qui una puntata di Radio Attiva?».

E così iniziammo. Organizzammo dirette da Vinile, da Ostello Bello che aveva appena aperto i battenti a Milano in via Medici, al neonato Birrificio di Lambrate in via Golgi e addirittura a Le Dictateur, una galleria punk di via Nino Bixio, ricavata da un ex lavasecco, a una festa organizzata da due artisti appartenenti alla galassia di Maurizio Cattelan. «Nei locali trovi sempre dj set o concertini, noi facciamo radio dal vivo. Stasera siamo in una galleria d’arte, la più grande opera esposta siamo noi», dichiarai, preso da un eccesso di megalomania, in un’intervista che rilasciai quel giorno al Corriere della Sera. C’erano già tutti gli ingredienti che portarono alla nascita di PopUp, che successivamente diventò il programma itinerante di Radio Popolare, trasmissione che nacque dopo l’esperienza di Juke Box on The Rocks, ospitata sul sito di Rolling Stone Magazine, con la quale a tutti gli effetti sperimentammo il format da proporre all’emittente di via Ollearo.
Abbiamo trasmesso dappertutto, in qualsiasi condizione, da barche a vela, da furgoni in movimento, da birricicli, da yacht di organizzazioni umanitarie. In vetrine, scantinati, terrazze, porti, su enormi palcoscenici, sui marciapiedi, in strada o in mezzo al mare. Durante la pandemia perfino dal salotto di casa nostra, a distanza, guardandoci in faccia su Skype
In sette anni e mezzo abbiamo trasmesso ovunque, con la massima libertà, potendo scegliere sempre in totale autonomia ospiti, luoghi, argomenti e musica. Abbiamo trasformato un westfalia del 1983 nel nostro personale studio radiofonico. Siamo stati in locali, bar, ostelli, tendoni, cascine, cinema, festival, librerie, atelier di moda, negozi di abbigliamento, fiere, scuole di scrittura, pastifici, birrifici, ristoranti, osterie, mercati, gallerie d’arte, e una volta, in smoking, anche in un palazzo patrizio del 1600. Abbiamo trasmesso dappertutto, in qualsiasi condizione, da barche a vela, da furgoni in movimento, da birricicli, da yacht di organizzazioni umanitarie. In vetrine, scantinati, terrazze, porti, su enormi palcoscenici, sui marciapiedi, in strada o in mezzo al mare. Durante la pandemia perfino dal salotto di casa nostra, a distanza, guardandoci in faccia su Skype e facendo il punto, tra un disco e l’altro, con gli ospiti al telefono. Abbiamo trattato il nostro programma radiofonico, io e Alb, in questi 12 anni, come se fosse un figlio. Lo abbiamo coltivato, curato, coccolato, fatto crescere. Abbiamo dato voce a politici, giornalisti, band indipendenti, rapper, writer, street artist, curatori e curatrici, associazioni, rifugiati, onlus, attivisti, blogger, scrittori, autori e autrici, esponenti dell’underground e del mainstream, dj, cantanti pop, conduttori televisivi, negozianti, baristi, artigiani e compagnia bella. Se escludo dal conto Ofelia, Alberto è senz’alcun dubbio la persona che ho avuto più vicino in questi ultimi anni, nonostante le nostre differenze e anche una grossa crisi che come le migliori coppie siamo stati entrambi in grado di superare.

Penso a questo mentre finisce il disco dei Comet is coming e quando torno in onda ho gli occhi lucidi e non riesco a parlare nonostante il microfono sia acceso, e la voce mi trema per l’emozione, come quella volta al Bar Basso, stipato di gente per il nostro debutto in FM sulle frequenze di Radio Pop, nel gennaio del 2015. «Come fai a essere così?», mi ha chiesto una ragazza qualche giorno fa. «Vedi, faccio il deejay. Sono come Dorian Gray, non posso invecchiare», le ho risposto. E come disse Renzo Arbore, che poi è il motivo per cui ho scritto disk-jockey sulla carta d’identità (che tra l’altro proprio questa settimana ha compiuto 85 anni e a cui dedico il TaleS settimanale), «quando nasci deejay, poi sei deejay per tutta la vita». Per tutta la vita, anche se quella di oggi potrebbe essere l’ultima puntata. «I’m a deejay. I’m what I play», diceva uno bravo.