La presa della pastiglia

Gianna Milano
31/01/2022

Insieme con il Molnupiravir di Merck, il Paxlovid prodotto da Pfizer potrebbe assestare la spallata decisiva al Covid. La facilità di assunzione e gli effetti di questi antivirali, specie nella fase iniziale della malattia, aiuteranno laddove il numero di vaccinati è ancora basso. Ma restano alcuni nodi da sciogliere.

La presa della pastiglia

Mentre la campagna vaccinale incalza, siamo alla dose tre, se ne prospetta una quarta. Mentre compaiono nuove varianti del coronavirus responsabile della pandemia, ultima in ordine di tempo è Omicron che ha spodestato Delta e oggi prevale al 95 per cento. Mentre i Dpcm del governo si susseguono stabilendo nuove restrizioni con l’obiettivo di arginare i contagi. Mentre si è deciso di rendere obbligatorio il vaccino agli over 50, sul mercato arrivano (o stanno per arrivare) farmaci che, almeno nelle fasi iniziali dell’infezione, potrebbero cambiare le regole del gioco. Nel paniere, due nuovi antivirali, il Molnupiravir e il Paxlovid, che se i risultati degli studi clinici in corso confermeranno quelli forniti dai comunicati stampa della Merck per il primo e della Pfizer per il secondo, potrebbero contribuire a modificare il corso della pandemia. Entrambi assumibili sotto forma di pillole, avrebbero ridotto i ricoveri in ospedale e i decessi nelle persone trattate subito dopo la comparsa dei sintomi. Il timing, ovvero la tempestività di assunzione, perché la terapia sia efficace è importante, dicono i produttori. «La combinazione di vaccini e antivirali potrebbe diventare un’arma utile per controllare i focolai» ha detto Jerome Kim, direttore dell’International Vaccine Institute a Seoul, nella Corea del Sud, intervistato da Nature. «Per esempio, se una variante di coronavirus emerge in una specifica regione, coloro che rischiano di più di infettarsi potrebbero assumere questi farmaci per fornire un supplemento all’immunità dei vaccini».


Molnupiravir e Paxlovid, come funzionano i due antivirali

I due antivirali hanno un meccanismo di azione diverso. Il Molnupiravir agisce introducendo errori nel genoma virale durante la sua replicazione e alla fine questi errori sono talmente numerosi che il virus non riesce più a sopravvivere. Il Paxlovid, invece, inibisce la proteasi, un enzima necessario per elaborare alcune proteine virali nella loro forma funzionale. Il farmaco è in realtà la combinazione dell’antivirale più il Ritonavir, componente di alcuni cocktail nel trattamento dell’Hiv, il virus dell’Aids. Diverse le riserve sollevate da alcuni scienziati su entrambi gli antivirali. Il rischio potenziale del Molnupiravir, come segnalato dal British Medical Journal, è che potrebbe causare mutazioni anche nel Dna delle cellule umane e dovrebbe essere usato con molta cautela specie nelle donne gravide. Non solo. Producendo errori nella replicazione virale il farmaco potrebbe favorire, tra l’altro, l’emergere di nuove varianti, avverte Nature. Riserve che hanno pesato sulla decisione del panel di esperti dell’Agenzia americana per i farmaci (Fda) che il dicembre dello scorso anno ha votato con uno stretto margine (13 contro 10) a favore dell’autorizzazione emergenziale del Molnupiravir: le nove ore di meeting sono state trasmesse in diretta su Youtube.

Il Paxlovid, cui l’Agenzia europea per i farmaci (Ema) ha appena dato il suo via libera, dal momento che influisce sul modo in cui altri farmaci vengono metabolizzati dall’organismo, non dovrebbe essere prescritto assieme a terapie come quelle per il cuore oppure a trattamenti che agiscono sul sistema immunitario. Senza contare che il coronavirus potrebbe sviluppare resistenza agli antivirali, problema noto a chi cura infezioni virali come epatite C e Hiv, nelle quali si utilizzano, proprio per questo motivo, combinazioni di antivirali. «Resta da capire, e lo diranno ulteriori studi clinici, se questi antivirali influiscono sulla trasmissione del virus o prevengano la malattia in chi ne è venuto a contatto. Inoltre, quanto sono efficaci contro le varianti note e sicuri» osserva John Mellors, specialista in malattie infettive all’Università di Pittsburgh Medical Center in Pennsylvania, intervistato da Nature.  Il 4 novembre scorso il Regno Unito è stato il primo pPaese ad approvare il Molnupiravir, sviluppato da Merck e da Ridgeback Biotherapeutics, ed esattamente un giorno dopo da New York la Pfizer annunciava l’arrivo del suo antivirale, il Paxlovid. Secondo le dichiarazioni preliminari, l’antivirale della Merck dimezza le ospedalizzazioni, percentuale poi aggiornata al 30 per cento, mentre quello della Pfizer ridurrebbe dell’89 per cento il rischio di ricovero nelle forme lievi o moderate di Covid-19.

Gli antivirali molnupiravir e paxlovid potrebbero assestare una spallata decisiva alla pandemia: quali sono i rischi e i benefici
Medici impegnati a curare un paziente malato di Covid

Gli Usa investiranno 5 miliardi di dollari per fare scorte di Paxlovid

Pfizer ha previsto che produrrà sufficienti dosi per trattare 20 milioni di persone nella prima metà di quest’anno e altri 60 milioni nella seconda metà. L’amministrazione Biden ha programmato di investire 5 miliardi di dollari per fare scorte del Paxlovid e di acquistarne dieci milioni di dosi a un prezzo che si aggira sui 530 dollari per ciclo di terapia. A sua volta la Merck ha previsto di produrre almeno 20 milioni di dosi del suo Molnupiravir e il governo federale ha concordato l’acquisto di oltre tre milioni di queste pillole a circa 700 dollari per ciclo. «Almeno per i prossimi mesi a essere candidati agli antivirali saranno le persone vulnerabili – quelle più anziane o con patologie, come cancro, diabete, malattie croniche renali o cardiache oppure obese», scrive il New York Times. Che aggiunge: «I trattamenti prevedono un programma dettagliato di assunzione: tre pillole due volte al giorno per cinque giorni nel caso di Pfizer. Naturalmente occorre la prescrizione medica». La Merck ha siglato un accordo con il Medicines Patent Pool, un’organizzazione sostenuta dalle Nazioni Unite con sede a Ginevra, in Svizzera, che si adopera per accelerare l’accesso ai farmaci garantendo le licenze di proprietà intellettuale necessarie a produrre Molnupiravir nei paesi a basso e medio reddito. Diverse aziende di generici hanno già iniziato a produrlo e il Patent pool è in trattative anche con Pfizer. Entrambe le società si sono impegnate ad accordare prezzi meno elevati ai paesi a basso reddito per consentire l’acquisto dei due antivirali. «Ma la proprietà intellettuale non è l’unico ostacolo», afferma Nature. «Un altro scoglio sono i test: la somministrazione dei farmaci all’inizio dell’infezione significa poter disporre di un’ampia fornitura di test per Covid-19. E c’è un enorme divario nell’accesso ai test a seconda dei vari paesi».

Il Comitato per i medicinali ad uso umano (CHMP) dell’Ema ha formulato un parere positivo all’uso di Paxlovid abbinato a Ritonavir: i due principi attivi del medicinale disponibili sotto forma di compresse separate, devono essere assunti insieme due volte al giorno per 5 giorni e alla comparsa dei primi sintomi. Sempre l’Ema, informa il bollettino dell’Aifa, ha avviato la revisione dei dati disponibili per l’uso di Molnupiravir a supporto delle autorità dei paesi che decidessero di impiegare il medicinale prima della sua autorizzazione. Ed è in corso una rolling review, ovvero una revisione ciclica dei risultati degli studi, in vista di un’eventuale domanda di autorizzazione all’immissione in commercio dell’antivirale e il CHMP ha promesso di fornire nel più breve tempo possibile raccomandazioni all’interno dell’Ue per quelle autorità nazionali che decidono un uso precoce del medicinale, come in situazioni di critiche. In Italia il novembre scorso il generale Francesco Figliuolo, commissario per l’emergenza Covid-19, ha avuto mandato di acquisire 50mila dosi di Molnupiravir e Paxlovid, entrambi autorizzati dal ministero della Salute per una distribuzione in condizioni di emergenza: per esempio in persone adulte che sono ad alto rischio di progredire alla forma grave della malattia.

Perché è necessario avere tutti i dati dei trial: il precedente dell’influenza suina 

«Per gran parte del mondo che non ha una buona copertura vaccinale questi nuovi antivirali potrebbero essere una manna dal cielo», ha affermato Charles Gore, direttore esecutivo del Medicines Patent Pool. Ma, fanno notare alcuni esperti, poco si sa ancora sulla loro efficacia e sicurezza. «Mancano dettagli cruciali che si potranno ricavare solo disponendo di dati completi degli studi clinici, come età ed etnia di coloro che sono stati arruolati nei trial e quali condizioni di salute avessero», ha detto Mellors. Sia Pfizer che Merck hanno riferito che i loro antivirali sono stati ben tollerati dai partecipanti alla sperimentazione e che i potenziali effetti collaterali erano minori. Ma, sottolinea Peter Doshi, dell’Università del Maryland, editorialista del British Medical Journal, per non ripetere errori commessi in passato è di primaria importanza l’accesso immediato a tutti i dati perché vengano sottoposti a scrutinio. Doshi ricorda come nel 2009 nel mezzo di una differente pandemia influenzale, quella suina, la frenesia dei governi di immagazzinare scorte di Oselatamivir (Tamiflu), promosso come rimedio miracoloso e iscritto perfino dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nella lista dei farmaci essenziali, spinse i governi nel mondo a spendere miliardi per fare scorte dell’antivirale che prometteva di ridurre complicazioni, ricoveri e decessi. Una revisione delle prove annullò i vantaggi del suo utilizzo e le scorte restarono inusate.

La saga del Tamiflu, come scrive Salute Internazionale, è una brutta storia fatta di conflitti d’interessi, di opacità e di manipolazione dei dati scientifici a scopo commerciale, di comportamenti elusivi, al limite della complicità da parte di istituzioni scientifiche e di controllo. Ma è anche una bella storia per chi si è battuto per anni nella ricerca della verità. «La maggior parte degli studi che avevano sostenuto l’approvazione del Tamiflu e portato all’accumulo di scorte erano stati sponsorizzati dall’industria farmaceutica che lo produceva ed erano per la maggior parte inediti, quelli pubblicati erano scritti da ghostwriters pagati dall’industria, le persone elencate come autori principali non avevano accesso ai dati grezzi e agli accademici che lo avevano richiesto venne ripetutamente negato l’accesso ai dati per un’analisi indipendente», ricorda Doshi. «La storia del Tamiflu ha segnato un decennio di attenzione senza precedenti all’importanza della condivisione dei dati degli studi clinici. E tutto faceva presagire una nuova era per la trasparenza. Progressi sono stati compiuti ma non abbastanza».

Gli antivirali molnupiravir e paxlovid potrebbero assestare una spallata decisiva alla pandemia: quali sono i rischi e i benefici
Un reparto Covid in Italia (Getty)

Dal 2020 le pubblicazioni sul Covid sono raddoppiate ogni due settimane

Garantire l’integrità della ricerca scientifica in tempi di pandemia, quando paura (e pressioni/interessi politici ed economici) inducono a raggiungere in fretta dei risultati, non è facile. La speed science, ovvero la scienza ad alta velocità ingaggiata dall’emergenza, rischia di favorire la diffusione di risultati incompleti o erronei che portano a prendere decisioni di politica sanitaria basate su studi non esattamente appropriati. «La letteratura corrente sui trattamenti per la malattia Covid-19 è piena di comunicazioni aneddotiche di successi di trial clinici basati su piccoli numeri di pazienti o su studi osservazionali inconclusivi», ha scritto sul New England Journal of Medicine l’infettivologo americano Anthony Fauci, consulente per la pandemia della Casa Bianca. The Economist ha calcolato che a partire da gennaio 2020 il numero di pubblicazioni scientifiche su Covid-19 è raddoppiato ogni due settimane: quasi 200 paper al giorno. Una paperdemic, ovvero una pandemia da pubblicazioni, che rischia di proliferare in maniera incontrollata senza un valido scrutinio, ha scritto Ricardo Jorge Dinis-Oliveira, dell’University Institute of Health Sciences di Porto, in Portogallo. Rispetto alla epidemia di Sars nel 2002, la sindrome respiratoria causata sempre da un coronavirus, Covid-19 ha prodotto durante i primi cinque mesi della pandemia un numero di studi pubblicati decisamente maggiore, per lo più online in forma preprint, il mezzo preferito per rendere noti i risultati preliminari di ricerche sganciate dal vaglio dei revisori paritari o peer reviewer. Un modo questo per incoraggiare la rapida condivisione scientifica dei dati ma che in tempi di pandemia rappresenta, secondo Doshi, «una sfida a mantenere integrità nella ricerca e a rispettare quei principi standard di correttezza globalmente riconosciuti».

Gli altri farmaci per combattere il Covid

Vari sono i farmaci approvati e commercializzati per altre indicazioni resi intanto disponibili off label ai malati di Covid-19 , come le eparine a basso peso molecolare usate per contrastare un possibile effetto trombogeno indotto dal virus; i corticosteroidi considerati sulla base delle attuali conoscenze uno standard di cura nei casi gravi e, infine, gli anticorpi monoclonali Sarilumab e Tocilizumab in uso da tempo che interferiscono con la risposta immunitaria. «Ma ce ne sono altri di farmaci che in assenza di terapie specifiche, e basandosi su ricerche di disegno valido e prove ragionevoli, sono utilizzabili anche a domicilio d’intesa con il medico curante», spiega Alberto Donzelli, coordinatore scientifico della Fondazione Allineare Sanità e Salute, che fornisce ai sistemi sanitari un supporto di ricerca, conoscenze e strategie per superare il paradossale conflitto di interessi che permea il mondo della salute. «Nel lungo elenco delle sostanze biologicamente plausibili, sicure, economiche e attive contro il virus (iodopovidone, indometacina, melatonina, curcumina, nigella sativa) c’è l’ivermectina, un antielmintico che ha incontrato una ostilità inspiegabile dal momento che i suoi benefici, specie se il trattamento è precoce, sono dimostrati in una trentina di studi clinici, fra cui una ricerca dell’ospedale Negrar di Verona assieme all’Istituto Mario Negri di Milano che ne ha verificato la sicurezza».

Ha superato il vaglio di ricerche di grande validità anche la fluvoxamina (per dieci giorni a dosi standard). «Interessante è il confronto tra fluvoxamina e molnupiravir nel ridurre ricoveri e mortalità: 32 per cento contro 30;  per sicurezza: altissima per dosi e tempi d’uso per il primo dubbia per il secondo; per costo: 7,3 euro contro circa 700» precisa Donzelli, membro della Commissione medico scientifica nata nel 2021 e formata da medici, farmacologi, pediatri, oncologi, esperti di sanità pubblica che da tempo chiede un confronto (finora senza risposta) con il Comitato tecnico scientifico del governo.