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Amazzonia e moda, nemici per la pelle

Un nuovo studio collega alcuni grandi marchi internazionali al disboscamento della foresta. Cruciale è il rapporto con JBS, maggiore conceria del Brasile.

30 Novembre 2021 16:45 Fabrizio Grasso
Uno studio collega Nike, Zara e altri marchi di moda alla deforestazione dell’Amazzonia. Cruciale il rapporto con JBS, conceria del Brasile

Un nuovo studio porta alla luce i legami fra l’industria della moda e la deforestazione dell’Amazzonia. Oltre 100 marchi di abbigliamento al mondo, tra cui Nike, Zara e Prada, contribuirebbero indirettamente alla distruzione del grande polmone della Terra. Lo svela un’analisi di Stand.earth, organizzazione di ricerca internazionale che da 20 anni si concentra sulla salute del nostro pianeta.

Deforestazione, coinvolte anche Nike, Adidas, H&M e Prada

Nowhere to Hide (Nessun luogo in cui nascondersi), questo il titolo del rapporto pubblicato ieri, ha passato in rassegna una quantità ingente di dati doganali e ha scoperto connessioni fra 100 aziende di moda e la deforestazione amazzonica,  soprattutto per quel che riguarda il commercio della pelle e i rapporti con le concerie. Nel mirino sono così finite Coach, LVMH, Prada, H&M, Zara, Adidas, Nike, New Balance, Teva, UGG e Fendi, tutte legate a JBS, il più grande esportatore di pelle del Brasile. Sebbene quest’ultimo si sia impegnato a raggiungere l’obiettivo “deforestazione zero” entro il 2035, diverse fotografie hanno documentato come in realtà la situazione sia molto diversa. Già nel luglio dello scorso anno il Guardian aveva riportato accuse mosse all’azienda, i cui fornitori indiretti hanno subito diverse sanzioni per deforestazione.

Uno studio collega Nike, Zara e altri marchi di moda alla deforestazione dell’Amazzonia. Cruciale il rapporto con JBS, conceria del Brasile
I risultati della deforestazione in un’area della foresta amazzonica in Brasile (Getty)

Il risultato sorprende ancor di più se si considera che la maggior parte delle case di moda in questione ha annunciato politiche aziendali contro la deforestazione. LVMH, ad esempio, proprio a inizio 2021 si era impegnata a proteggere la foresta grazie a una partnership con l’Unesco. «In Amazzonia la vegetazione diminuisce sempre più, quindi queste politiche non hanno sortito alcun effetto», ha detto al Guardian Greg Higgs, uno degli autori dello studio. Secondo dati recenti, la deforestazione è aumentata del 22 per cento fra agosto 2020 e luglio 2021, un record negli ultimi 15 anni. Il disboscamento ha portato alla sparizione di oltre 13 mila chilometri quadrati di vegetazione.

In Amazzonia l’allevamento di bestiame è la maggiore minaccia per la foresta

Meno sorprendente invece il contributo dell’industria delle pelli nella deforestazione. Una ricerca del 2019 aveva già identificato il settore del bestiame – e quindi della distribuzione sia della carne sia delle pelli – come il più grande fattore di deforestazione della foresta pluviale. L’espansione delle aree per il pascolo è responsabile dell’80 per cento della diminuzione delle aree boschive dell’area. Basti pensare che, come ricorda il Guardian, fino al 2025 la moda necessiterà di 430 milioni di bovini per soddisfare la sola domanda annuale di portafogli, borsette e scarpe.

Together @standearth & @theslowfactory have released new research that reveals how the fashion industry is pushing the Amazon rainforest closer to the tipping point of irreversible ecosystem collapse. #SupplyChange https://t.co/kldIXFcYVx pic.twitter.com/5op6bk07WC

— Slow Factory (@theslowfactory) November 30, 2021

A pagarne lo scotto anche le tribù dei nativi. «Ogni industria del settore ha la responsabilità morale, nonché l’influenza e le risorse economiche per porre fine ai rapporti con i fornitori che contribuiscono alla deforestazione», ha detto Sônia Guajajara, coordinatrice esecutiva dell’Alleanza dei popoli indigeni brasiliani. «Non entro il 2025, non entro 10 anni, ma oggi». Un ulteriore ritardo infatti potrebbe avere effetti disastrosi, portando a un collasso irreversibile dell’ecosistema. «Dobbiamo solo trovare altre soluzioni alternative che non siano di origine animale o plastica», ha affermato Céline Semaan, ad di Slow Factory, organizzazione no profit che ha partecipato allo studio. «Con le risorse che hanno le aziende di moda, non ci sono scuse».

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