L’immagine della foresta pluviale amazzonica come polmone verde del pianeta, grazie alla vegetazione rigogliosa e al clima umido che ne favorisce la crescita, potrebbe essere presto sostituita da una meno idilliaca. Secondo uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, l’Amazzonia ultimamente starebbe producendo più anidride carbonica di quanta ne assorba, con un divario di circa un miliardo di tonnellate. La maggior parte delle emissioni è causata da incendi (oggi al livello più alto dal giugno 2007), molti appiccati volontariamente per favorire il disboscamento, condizione necessaria per la sostituzione della foresta con pascoli e piantagioni di soia. Non solo, fra le cause anche le temperature in continuo aumento e la siccità crescente.
La ricerca si aggiunge a uno studio pubblicato lo scorso aprile, in cui si era notato come l’area verde del Brasile avesse rilasciato nell’atmosfera negli ultimi 10 anni il 20 per cento di anidride carbonica in più rispetto a quella assorbita. E un altro studio del 2020 aveva già esteso il problema a tutte le foreste pluviali del mondo, incapaci di trattenere la CO₂ come in passato.
Amazzonia, le ragioni della trasformazione
Per effettuare l’analisi, operata dall’Istituto nazionale per la ricerca spaziale in Brasile, gli scienziati hanno sorvolato la vegetazione con piccoli aerei in modo da misurare i livelli di CO₂ fino ai 4500 metri di altezza. Ne sono venuti fuori dati preoccupanti. Esaminando i campioni relativi al periodo di tempo che intercorre fra il 2010 e il 2018, gli esperti hanno rilevato che gli incendi hanno prodotto circa 1,5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno, mentre le foreste sono state in grado di assorbirne soltanto 0,5. Il divario, pari dunque a un miliardo di tonnellate annue, corrisponderebbe alle emissioni dell’intero Giappone, quinto paese più inquinante sul pianeta.
«Ci sono due pessime notizie. La prima è che gli incendi producono una quantità di CO₂ tre volte superiore rispetto a quanto la foresta sia in grado di assorbirne», ha dichiarato al Guardian Luciana Gatti, direttrice dello studio. «La seconda è che i luoghi in cui la deforestazione è pari o superiore al 30 per cento mostrano emissioni di carbonio 10 volte superiori rispetto a quelle in cui la stessa è inferiore al 20 per cento». Meno alberi si traducono in meno piogge e in un clima più arido e secco che favorisce gli incendi, alimentando un circolo vizioso di autodistruzione.

Un accordo globale per salvare l’Amazzonia
«Abbiamo bisogno di un accordo globale per salvare l’Amazzonia», ha continuato Gatti. Alcune nazioni europee come Francia, Austria e Irlanda hanno affermato che bloccheranno le intese commerciali con il Brasile a meno che il governo locale non si muova nel tentativo di contrastare la deforestazione. Intanto però la vegetazione continua a diminuire. Già in passato il governo brasiliano e il presidente Bolsonaro erano stati criticati per non aver garantito la giusta tutela all’Amazzonia, che, secondo quanto emerge da un’indagine del Guardian del maggio 2020, in un anno avrebbe perso 11mila chilometri quadrati di vegetazione.
«Nella zona sud-est, la vegetazione muore più velocemente di quanto ricresca», ha detto Scott Denning, professore della Colorado State University. «Dobbiamo eliminare i combustibili fossili al più presto, velocizzando se possibile tutti i processi». «Il lato peggiore di tutto ciò è che non stiamo usando la scienza per prendere le decisioni», ha concluso Gatti. «La gente crede che convertire più aree in terreni agricoli porti a una maggiore produttività, ma in realtà essa cala proprio a causa dell’impatto negativo delle zone coltivate sulla pioggia».