Alfredo Mantovano, l’iper-cattolico conservatore uomo squadra del governo Meloni

Leccese, magistrato, più reazionario della Roccella sui diritti, Mantovano è il nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio: il tutore saggio che incanala i bollenti spiriti dei “ragazzacci” della generazione Atreju. Un clerico-fascista? No, visto che si iscrisse ad An tardi. Profilo dell'uomo scelto (anche) per rassicurare la Casa bianca.

Alfredo Mantovano, l’iper-cattolico conservatore uomo squadra del governo Meloni

Una specie di “dottor Sottile” in salsa conservatrice, richiamando il nomignolo che da decenni fa le (s)fortune di Giuliano Amato. Leccese, 64 anni, Alfredo Mantovano è il vero outsider del governo Meloni, l’underdog della underdog, volendo celiare sulla narrazione meloniana. Ossia l’uomo che non ti aspetti al posto che non ti aspetti. E che pure sembra starci benissimo da subito, sin dalla cerimonia della campanella, quando lascia balenare un sorrisino composto e stringe la mano al suo predecessore, Roberto Garofoli, pugliese come lui, seppur di Molfetta.

Aria ed eloquio da magistrato integerrimo (per i sostenitori) o da fratino compito (per i detrattori)

È il Tacco d’Italia che domina in continuità al vertice delle istituzioni. Mantovano lo rappresenta con l’aplomb sorvegliato di chi la sa lunga, con modi più da civil servant che da politico, ma soprattutto con l’esperienza di chi dovrà vestire in qualche modo i panni del tutore saggio che controlla e incanala i bollenti spiriti dei “ragazzacci” della “generazione Atreju”. Aria ed eloquio da magistrato integerrimo (per i sostenitori) o da fratino compito (per i detrattori), Mantovano torna con un piccolo colpo di scena nelle stanze del governo dopo essere stato sottosegretario all’Interno in due governi Berlusconi, ma anche due volte deputato e una volta senatore. Il suo ruolo a Palazzo Chigi sembrava dovesse toccare a Giovanbattista Fazzolari e invece Meloni, che lo conosce e lo stima da circa un trentennio, ha scelto questo consigliere in Corte di cassazione che era entrato in magistratura quasi 40 anni fa dopo essersi laureato alla Sapienza con una tesi sulla costituzionalità della legge 194 sull’aborto.

Alfredo Mantovano
Alfredo Mantovano. (Facebook)

Lo smacco della sconfitta contro Massimo D’Alema nel mitico collegio di Gallipoli nel 2001

Si sa, Mantovano è un iper-cattolico conservatore, ma sarebbe ardito definirlo un clerico-fascista, visto il suo background certamente non missino. Si iscrisse infatti ad Alleanza nazionale soltanto nel 1997, un anno dopo il suo debutto alla Camera. La sconfitta politica più bruciante fu invece quella contro Massimo D’Alema nel mitico collegio di Gallipoli alle elezioni del 2001: Mantovano ci rimase male, tanto da denunciare la presenza di nemici interni che gli remavano contro. Il giurista leccese, però, sa sconfessare la sua mitezza e tirare fuori gli artigli quando serve: alla fine del 2012, tanto per dire, ribadì la fiducia al governo Monti, andando contro Berlusconi e il Pdl. A quel punto decise di non ricandidarsi l’anno dopo e rientrò disciplinatamente in magistratura.

d'alema e l'irritazione di Letta e del Pd
Massimo D’Alema. (Getty Images)

Teocon dalla faccia mite, per molti è addirittura più reazionario di Eugenia Roccella

In questi 10 anni lontano dalla politica, certo, non è mancato il suo impegno intellettuale e giuridico attorno ai temi che gli stanno a cuore. Esponente di Alleanza cattolica, Mantovano è dal 2015 presidente della sezione italiana della fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che soffre”, che si occupa di persecuzioni religiose. E dallo stesso anno è vicepresidente del Centro studi “Rosario Livatino”, dedicato al “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia nel 1990 e beatificato dal Vaticano l’anno scorso. Teocon dalla faccia mite, per molti è addirittura più reazionario di Eugenia Roccella, neoministra della Famiglia e della natalità, in merito a temi etici e diritti civili. Insomma, su nascita, fine vita, coppie arcobaleno, omofobia e bioetica ha sempre avuto idee chiare e le ha esposte in diversi saggi. Lo hanno anche definito esponente di spicco del “ruinismo”, in quanto fervente sostenitore di Camillo Ruini, il vero elaboratore del software politico dei pontificati conservatori di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Non a caso, la stessa Giorgia Meloni si è richiamata alle parole di Karol Wojtyla durante il suo intervento per la fiducia alla Camera. Ma Mantovano ritrova adesso al governo come compagno di viaggio pure un’altra sua vecchia conoscenza: Raffaele Fitto, salentino come lui (non leccese ma di Maglie, la cittadina di Aldo Moro). Un tempo, i rapporti tra i due erano tutt’altro che idilliaci, però sono ormai sepolti i veleni di quando duellavano e si davano arie da cacicchi del centrodestra pugliese.

Alfredo Mantovano, l'iper-cattolico conservatore uomo squadra del governo Meloni
Eugenia Roccella. (Getty)

Avrà responsabilità in dossier scottanti come le nomine di primavera delle partecipate

Sia come sia, è evidente che la presidente del Consiglio non ha scelto Mantovano per le sue idee in materia di etica, ma per la sua sapienza giuridica, per l’ottima conoscenza del diritto europeo e per gli storici rapporti con ambienti Usa, che aiutano a rassicurare la Casa bianca. Forse Giorgia è stata imbeccata da Gianfranco Fini? Chissà. L’ex sottosegretario al Viminale appartiene comunque a quella generazione che ormai “sa come si fa” e conosce a menadito la macchina di governo: non a caso a metà Anni 90 ha ricoperto anche il ruolo di capo di gabinetto al ministero dell’Agricoltura. A lui ora tocca tenere in mano l’agenda delle riunioni del governo, presiedere i preconsigli con gli stessi capi di gabinetto, preparare e cesellare i documenti del Cdm. Un ruolo delicatissimo cui si aggiungerà una qualche responsabilità in dossier scottanti come le nomine di primavera in seno alle grandi aziende di Stato: Eni, Enel, Poste, Leonardo e così via. Senza scordare che quasi certamente gli spetterà pure la delega cruciale ai Servizi segreti. Insomma, un potere enorme da gestire ricordando che «Cristo c’è sempre anche se mi distraggo e lo credo assente», come ebbe a dire in passato. Mantovano vive a Roma da una vita e la ama smisuratamente. Ma non ha perso i contatti con la sua Lecce. Dei salentini e della loro difficoltà ad emergere in patria, che poi li porta spesso a emigrare per avere successo fuori (proprio come lui), una volta disse: «Non sempre sappiamo fare gioco di squadra, né tra istituzioni né con i privati». Ora lui è l’uomo squadra a Palazzo Chigi. Ed è vietato sbagliare. Ancora nel 2018 rifletteva: «Uno dei problemi di oggi è che le cosiddette élite ignorino le esigenze della gente. Mentre i cosiddetti populisti le conoscono benissimo, ma non hanno le risposte adeguate». Chissà cosa ne pensa Giorgia Meloni.