La rivoluzione non russa
Navalny è il simbolo della nuova cortina tra Mosca e l'Occidente. Una vicenda che ricorda quella dell'ex premier ucraina Yulia Timoshenko. In realtà in casa il blogger perde consenso. Ed è consapevole che le rivolte, anche quelle anti-corruzione, si fanno in piazza e non sul web.
Alexey Navalny dalla prigione in cui è stato rinchiuso tra varie accuse, processi farsa e nuovi addebiti che rischiano di non farlo più uscire, scrive articoli e rilascia interviste alla stampa internazionale. Dalle colonne del Guardian il 19 agosto aveva chiesto all’Occidente di imporre sanzioni agli oligarchi russi per sconfiggere la corruzione; da quelle del New York Times si è lamentato di essere obbligato a guardare la televisione di Stato e assorbirne la propaganda otto ore al giorno. «Leggere o scrivere è vietato», ha raccontato il blogger che descrive il carcere come un «campo di lavoro cinese dove tutti marciano perfettamente in linea e dove di sono telecamere ovunque. Il controllo è costante».
Navalny è incarnazione dello scontro tra Russia e Occidente
La figura dell’opposizione extraparlamentare russa più conosciuta in Occidente è “risorta” due volte, la prima dopo l’avvelenamento dell’agosto di un anno fa, la seconda dopo lo sciopero della fame di questa primavera, cominciato non appena finito dietro le sbarre. Nel frattempo il suo movimento contro la corruzione è stato catalogato illegale ed estremista (tra le varie organizzazioni che fanno capo a Navalny nel mirino è finita la Fondazione anticorruzione Fbk) e diversi dei suoi collaboratori sono stati costretti a rifugiarsi all’estero per evitare il rischio di seguirlo nelle patrie galere. Il giro di vite del Cremlino e della giustizia selettiva russa nei confronti degli avversari più scomodi e rumorosi si è rafforzato alla vigilia delle elezioni per la Duma che si terranno il 19 settembre. Intorno al destino di Navanly ruota il grande circo dei complessi rapporti tra Russia e Occidente. L’oppositore è diventata l’incarnazione della narrazione mainstream europea e statunitense della lotta tra autoritarismo e democrazia. Il presidente americano Joe Biden ha minacciato nuove sanzioni contro Mosca nel caso dovesse succedergli qualcosa in carcere mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel solo qualche giorno fa ha assicurato a Vladimir Putin che l’Europa continuerà a battersi per la sua liberazione. Al Cremlino non si è mai scomposto nessuno, anzi: in risposta sono piovute altre accuse e il pericolo di allungare il periodo di detenzione.

I parallelismi tra la vicenda del blogger e quella di Yulia Timoshenko
A ben vedere, la vicenda Navalny è la riedizione in chiave russa di quello che si è visto in Ucraina esattamente 10 anni fa con il caso di Yulia Tymoshenko. Allora l’ex premier, la principessa del gas convertitasi alla politica ed eroina della Rivoluzione arancione del 2004, era stata accusata di abuso di potere e sbattuta in un carcere femminile a Kharkiv dal presidente Victor Yanukovich. Il braccio di ferro tra Kiev e l’Occidente per la liberazione di Tymoshenko si era concluso solo con la rivoluzione di Maidan nel 2014. Yanukovich aveva prima risposto alle accuse di giustizia selettiva e al blocco dell’accordo di associazione con l’Unione europea virando verso Mosca, poi le proteste di piazze avevano condotto al cambio di regime avallato da Bruxelles e Washington, mentre Putin gridava al colpo di Stato. Le conseguenze furono l’annessione della Crimea e la guerra nel Donbass. C’è da chiedersi quanto Alexey Navaly abbia riflettuto sulle vicende ucraine quando lo scorso anno ha deciso di tornare in Russia, ben sapendo che gli sarebbe toccata la sorte di Tymoshenko. Durante i tre anni di carcere, l’ex premier ucraina è stata al centro della battaglia, anche e soprattutto di propaganda mediatica, tra Kiev e Occidente. Per mesi pareva dovesse essere liberata a causa delle condizioni di salute e di una schiena malandata. Angela Merkel aveva mandato schiere di dottori che consigliavano urgenti operazioni a Berlino. Le minacce di sanzioni e il boicottaggio diplomatico degli Europei di calcio non erano però serviti, Yanukovich non aveva mollato e senza il bagno di sangue di Maidan, dopo il quale l’oppositrice ucraina era tornata tranquillamente in libertà senza il bisogno di interventi chirurgici in Germania, probabilmente Tymoshenko sarebbe ancora a Kharkiv.

La perdita di consenso in Russia
Come per l’ex premier, che in patria era stata dimenticata da quasi tutti, compresi i colleghi dell’opposizione che preferivano avere in campo un avversario in meno per spartirsi risorse ed elettori, così pare stia accadendo in realtà anche a Navalny, ormai sostenuto solo dalla stampa occidentale, visto che in Russia il già poco consenso che raccoglieva sta disperdendosi. Senza contare che rispetto a Tymoshenko non ha mai avuto un vero partito alla spalle, tanto meno oligarchi a fargli da sponsor. A questo proposito i dati del Levada Center, centro di ricerca anch’esso colpito dalla legge che bolla come “agenti segreti” le organizzazioni che ricevono sovvenzioni dall’estero, sono impietosi. Nell’ultima indagine di luglio su Navalny si scopre che il 62 per cento dei russi non lo appoggia, mentre il 14 per cento sì. Passi indietro addirittura rispetto al 2020 quando, dopo il suo avvelenamento, il 20 per cento dei russi aveva espresso sull’oppositore un giudizio positivo, contro il 56 per cento di critici. Il 32 per cento, poi, ha approvato la decisione di dichiarare “estremista” la sua organizzazione, contro il 27 per cento di contrari e un 38 per cento di russi a cui non importa nulla. Insomma, nel migliore dei casi l’elettorato russo non pare molto interessato al destino del blogger anticorruzione e alle sue battaglie, anzi la stragrande maggioranza lo valuta in maniera negativa. In pochi hanno voglia di scendere in piazza per questioni politiche: solo il 16 per cento è disposto a farlo, l’80 per cento se ne starebbe comunque a casa. E questo è proprio il dato più preoccupante per Navalny e compagni, visto che la mobilitazione via Internet è una cosa, ma le vere rivoluzioni, pilotate o meno, come quelle ucraina, si fanno in ogni caso nelle strade. Dopo l’avvelenamento in Russia non si era mosso nessuno, le proteste annunciate dopo la sua condanna a Mosca sono state regolarmente rimandate e la ragione non è solo nella repressione annunciata dal Cremlino. Putin non farà certo l’errore di Yanukovich lasciando piantare tende sulla Piazza rossa come a Maidan ed è difficile che Mosca assista a una rivoluzione come a Kiev. Per far uscire di prigione Alexey Navalny ci vorrà insomma qualcosa d’altro, magari un accordo come quello ipotizzato per Tymoshenko (libertà, ma a Berlino) e già visto nel caso dell’oligarca Mikhail Khodorkovsky, graziato da Putin dopo 10 anni in Siberia e finito a Londra, lontano, almeno fisicamente, dagli affari russi.