A gennaio di quest‘anno una delegazione di talebani è stata ricevuta a Mosca, accolta da Zamir Kabulov, rappresentante presidenziale speciale per l’Afghanistan. Gli accordi di Doha con gli Stati Uniti erano stati firmati solo da qualche mese e il disimpegno occidentale da Kabul sembrava ancora molto lontano. Ma al Cremlino si pensava già al dopo. La Russia da mesi dialoga con i talebani, tra Kabul e il Qatar, e non è un caso che la reazione al ritorno al potere degli studenti coranici sia stata diversa dal caos che ha caratterizzato il ritiro di Stati Uniti ed Europa.
Le condizioni di Mosca e il tavolo con i talebani
L’ambasciata russa nella capitale afghana gode della protezione dei nuovi arrivati e il capo della diplomazia a Kabul, Dmitri Zhirnov, ha descritto una situazione migliore rispetto a quella che c’era prima che l’ormai ex presidente Ashraf Ghani se la desse a gambe levate. Questioni di prospettiva. Sergei Lavrov, ministro degli Esteri che negli ultimi 20 anni ha gestito tutte le crisi internazionali per conto del Cremlino, aveva tracciato già a luglio, durante l’ultimo incontro con gli inviati talebani, la linea rossa di Mosca, disposta a tollerare conflitti afghani interni, ma non tracimazioni terroristiche verso le repubbliche ex sovietiche confinanti e infiltrazioni estremistiche dello Stato Islamico. È questo che il Cremlino teme di più, per la stabilità dei fragili Stati limitrofi e i riflessi nella Federazione Russa, dal Caucaso all’Asia centrale. In teoria i talebani sono considerati dal 2003 un’organizzazione terroristica, ma il pragmatismo putiniano supera le effimere definizioni.

L’ombra del terrorismo negli Stan dell’Asia centrale
All’inizio di agosto durante un summit sul Mar Nero i capi di Stato dei cinque Stan dell’ex Urss (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan) avevano sottolineato di fronte al prevedibile e rapido rovesciamento afghano la necessità di mantenere stabile e sicura la situazione alle frontiere, dove a luglio si erano verificati diversi episodi di sconfinamenti e scontri armati. A Doha qualche giorno dopo il vice ministro degli Esteri turkmeno e l’inviato speciale uzbeko per l’Afghanistan avevano incontrato il Mullah Abdul Ghani Baradar, con loro anche il delegato russo Kabulov. I meno interessati a un collasso afghano e all’installazione di un un vero Stato terroristico sono da un parte il Turkmenistan, che ha 800 km di confine in comune con l’Afghanistan, dall’altra l’Uzbekistan e il Tagikistan che si dividono la frontiera a nord e sono sempre state zone a rischio, fin dagli Anni 90, con diversi gruppi islamisti radicali, primi fra tutti l’Imu (Movimento islamico dell’Uzbekistan) e l’Hitb ut Tarir (soprattutto nella Valle di Ferghana che attraversa Uzebkistan, Tagikistan e Kirghizistan) che hanno seminato morte e terrore. Una rinascita dell’estremismo e nuove alleanze con Isis e fondamentalisti vari è ciò che da Mosca al Pamir va assolutamente evitata. In questa ottica si devono leggere anche le esercitazioni militari che nelle scorse settimane hanno coinvolto Uzbekistan e Tagikistan, coordinate dalla Russia. Il ministro della Difesa Sergei Shoigu, fedelissimo di Putin, ha ribadito in quell’occasione la volontà russa di tamponare qualsiasi tipo di infiltrazione islamista. Non è nemmeno un caso che Mosca abbia annunciato qualche giorno fa di aver sgominato una cellula dell’Hitb ut Tarir in Crimea, penisola annessa nel 2014 dove vive una minoranza tatara musulmana.
La concorrenza tra Mosca e Pechino
Il Cremlino di fronte ai talebani si muove in sostanza con due obiettivi: da un lato si tratta appunto del controllo delle attività terroristiche che possono destabilizzare il fianco meridionale lungo i Paesi dell’ex Urss, dall’altro di cementare attraverso l’appoggio militare le relazioni con le repubbliche ex sovietiche che 30 anni dopo il distacco da Mosca non sono comunque del tutto indipendenti e per ragioni storiche ed economiche sono legate alla Russia. Già coinvolti nel Trattato di sicurezza collettivo e anche nella Sco, l’Organizzazione di Shanghai di cui fa parte anche la Cina, gli Stan hanno bisogno della collaborazione con la Russia che a sua volta ha in Pechino un prezioso alleato in chiave antiamericana, ma allo stesso tempo un rivale per l’influenza in Asia centrale. Il vuoto lasciato a Kabul dall’Occidente è stato riempito presto dai nuovi player regionali che hanno tutto l’interesse ad evitare che la nuova architettura talebana si trasformi in un pericolo per quello che considerano il loro giardino di casa.