Angela Merkel ha ammesso chiaramente un paio di giorni fa il disastro occidentale in Afghanistan. «Una valutazione sbagliata. Non una valutazione sbagliata tedesca, ma una valutazione sbagliata comune», ha detto la cancelliera sottolineando come «non siamo riusciti a raggiungere quello che ci eravamo preposti». Una conclusione «molto amara» dopo una missione sotto l’egida della Nato durata 20 anni. Con Mario Draghi e gli altri leader europei Merkel deve trovare ora la strategia per affrontare la probabile emergenza profughi. Con il premier italiano è già stata discussa telefonicamente la questione della protezione umanitaria di quanti hanno collaborato con le istituzioni italiane e tedesche e soprattutto delle categorie più vulnerabili, a partire dalle donne che sotto il regime dei talebani sono le prime a rischiare la limitazione dei propri diritti fondamentali. La cancelliera si sta muovendo anche per mettere in piedi un nuovo accordo Ue-Turchia per dirottare una parte del nuovo esodo, come scrive Repubbica, lontano dall’Europa.

Le tante ombre della politica estera di Angela Merkel
L’ingloriosa fine della missione in Afghanistan rappresenta per Angela Merkel l’ultima tappa alla cancelleria, dalla quale ha condotto la politica estera tedesca tra poche luci e molte ombre. Dopo 16 anni al Kanzleramt, colei che era state definita la leader del mondo libero lascia in eredità un’Europa non certo più sicura e coesa di quanto lo era quando nel 2005 sostituì Gerhard Schröder e una scacchiera euroasiatica, dal Mediterraneo al Pamir, la catena montuosa del Tagikistan, dove si è mossa sicuramente con pragmatismo, ma sempre appiattita sulla linea statunitense che ha provocato più danni che benefici, alla Germania e all’Europa. Nel 2003 era già la numero uno della Cdu e guidava l’opposizione al governo di coalizione tra i socialdemocratici della Spd e i Verdi: Schröder e il suo ministro degli Esteri Joshka Fischer si schierarono contro la guerra in Iraq, irritando non poco Washington, mentre Merkel dava fiducia a George Bush e al generale Colin Powell che sventolava al Consiglio di sicurezza dell’Onu le false ampolle di antrace. Fin da allora era chiaro che la futura cancelliera non avrebbe sviluppato una politica estera indipendente, ma sarebbe stata ancorata a voleri transatlantici, con la mezza eccezione dell’astensione nel 2011 sull’intervento in Libia. Il 2013 è fondamentale per capire il doppiopesismo merkeliano in polita estera, dettato come sempre dalla sudditanza verso la Casa Bianca che proprio quell’anno risulta responsabile di uno spionaggio costante della cancelliera, con addirittura il suo numero di cellulare controllato dalla Nsa. Merkel si limitò a replicare che «gli amici non vanno spiati». Il 2013 è anche l’anno in cui a Pechino viene eletto Xi Jinping. Tra Germania e Cina le relazioni sono sempre state molto pragmatiche, sin dai tempi di Helmut Kohl. Merkel ha proseguito sulle stesse orme, irritando magari Pechino per aver invitato al Kanzleramt il Dalai Lama, mantenendo però sempre gli occhi al business dell’industria tedesca nel grande mercato cinese. Ma anche qui non sono mancati i passi falsi, a partire dalla sponsorizzazione un po’ avventata di Wirecard, l’azienda fallita miseramente fra scandali e buchi miliardari.

I fronti caldi del 2013: dalla Turchia all’Ucraina
I fronti caldi nel 2013 sono però altri: da una parte in Turchia Erdogan reprime le proteste di Gezi Park e in tutto il Paese con il pugno di ferro senza che Berlino, Bruxelles o Washington si scompongano più di tanto: Ankara è un partner della Nato, e anche se dalla Siria alla Libia gioca sporco, va comunque trattato con i guanti di velluto. Per Merkel mettersi contro la Turchia, con 3 milioni di turchi ed elettori in casa, è un rischio inutile. Dall’altra parte in Ucraina le proteste contro Yanukovich, colpevole di non aver firmato l’Accordo di associazione con l’Ue, diventano il pretesto per un cambio di regime in cui Merkel avalla a occhi chiusa la tattica americana e manda addirittura l’allora ministro degli Esteri Guido Westerwelle a Maidan per sostenere l’opposizione. Il bagno di sangue a Piazza dell’indipendenza a Kiev, l’annessione della Crimea da parte della Russia e l’inizio della guerra nel Donbass sono le prevedibili conseguenze per aver mal calcolato le reazioni di Vladimir Putin. Merkel, insieme con François Hollande, tanta poi di mettere una pezza a conflitto iniziato, con gli accordi di Minsk firmati nel 2015 che sino a oggi nessuno ha applicato e perfino l’Ucraina rifiuta ora come basi per una risoluzione del conflitto.

Il fallimento in Europa dell’Est e Russia
La politica estera tedesca verso l’Europa orientale e la Russia, accompagnata dal programma di Eastern Partnership avviato dall’Ue nel 2009, è risultata in un fallimento, considerando che in due Paesi, Ucraina e Georgia, è scoppiato un conflitto armato, in Bielorussia Lukashenko ha chiuso le porte e in Azerbaigian Aliyev ha fatto altrettanto. La politica delle sanzioni contro la Russia è in un vicolo cieco, salvata solo dal fatto che i rapporti tra Berlino e Mosca sono più profondi di quanto la cancelliera stessa voglia ammettere, basta guardare al raddoppio del gasdotto Nordstream, difeso a tutti i costi nonostante le pressioni statunitensi e della nuova Europa geopoliticamente satellite degli Usa. La debolezza in politica estera dell’Unione europea è anche frutto della scarsa volontà tedesca di agire con autorità, preferendo la scelta dell’attendismo e senza particolari visioni strategiche su dossier fondamentali come quello dell’immigrazione, diventato attuale per Berlino dal 2015 dopo i disastri di Libia e Siria e ora di nuovo al centro della discussione con la disfatta in Afghanistan. L’ammissione della cancelliera del fallimento a Kabul non è altro che il preoccupante sigillo dopo oltre tre lustri alla guida della Germania e con grandi responsabilità in Europa.