Sono seduto nella sala d’aspetto dell’aeroporto JFK di New York. Ho già bevuto due bourbon doppi e rifletto sulla vita e la morte mentre attendo serenamente l’arrivo della limousine che mi deve portare a Manhattan. Osservo le file interminabili che si susseguono senza sosta al banco dell’immigrazione. Da oggi la Grande Mela riapre ai turisti dopo il buco spazio-temporale creato dal Covid e l’aeroporto è nel caos più assoluto.
Leggo sul Corsera che la compagnia Delta, con la quale tra l’altro sono atterrato circa un’ora fa da Milano Malpensa, ha visto aumentare in questi ultimi giorni le prenotazioni del 450 per cento e che è previsto il tutto esaurito qui a New York, ma anche in Florida e California, per Natale e Capodanno. Io dal canto mio non venivo negli Stati Uniti più o meno dalla metà degli Anni 80 e per l’occasione, oltre a un abito grigio in flanella con doppiopetto a revers extra large, indosso un Borsalino Fedora blu scuro in feltro rasato cinquanta grammi a tesa media, che mi ha regalato mio figlio Andrea per i miei 90 anni lo scorso dicembre, con cui sembro vagamente un gangster.
Mio padre è stato direttore del Teatro Nazionale e mia madre è stata una delle attrici più brillanti della sua generazione. Mio nonno era Zanko Zerkovsky, poeta e scrittore
Mi chiamo Kiril Frateff-Gianni, ma tutti fin da piccolo mi chiamano Kico, però sono molto diverso da Lolli, Giangi e i tanti fighetti della Milano bene che si fanno chiamare nei modi più assurdi e ridicoli. Sono proprio un’altra roba, io. Sono nato a Sofia, in Bulgaria, nel 1930 da una famiglia di teatranti; mio padre è stato direttore del Teatro Nazionale e mia madre è stata una delle attrici più brillanti della sua generazione. Mio nonno era Zanko Zerkovsky, poeta e scrittore, al quale in tutto il Paese sono ancora oggi dedicate vie scuole e monumenti. Dopo la guerra, nel 1946, mi sono trasferito a Milano, adottato da una famiglia di costruttori, in un periodo storico dove emigrare dalla Bulgaria era praticamente impossibile. Ho aggiunto il cognome Gianni sul passaporto, mi sono laureato alla Bocconi e lì è cominciata la seconda delle mie sette vite, che oggi racconterò per filo e per segno a un vecchio amico, Panagiotis “Taki” Theodoracopulos, con cui ho appuntamento tra circa tre ore al grill dell’Hotel Pierre sulla 5th Avenue, al quale ho deciso di rilasciare un’intervista fiume per chiudere definitivamente i conti con il passato.
Taki è un celebre giornalista greco che vive a New York da molti anni che conobbi un’estate a Saint Tropez di parecchio tempo fa a una festa organizzata dall’avvocato Agnelli al Gorille, con il quale, ricordo, persi tre milioni di vecchie lire a Ecarté. Ecarté è un vecchio gioco di carte del Settecento francese, che sta tra il poker e il ramino. L’avvocato amava questo gioco da impazzire e quella notte segnando i punti su un block-note giallo tirammo le sei del mattino in un testa a testa vorticoso che mi vide uscire sconfitto, come quasi sempre mi accadeva con le carte e in tutti i casinò di mezzo mondo. Ma questa è un’altra storia.
Taki è un giornalista greco che vive a New York e che conobbi un’estate a Saint Tropez di parecchio tempo fa a una festa organizzata dall’avvocato Agnelli
Il foliage a New York è un vero proprio evento che attira ogni anno turisti e soprattutto fotografi. Novembre non è il momento migliore per assistervi ma, se il clima non peggiora, è possibile ammirare i tanti alberi colorati dei classici toni autunnali, dal giallo, al rosso e all’arancione. Il luogo migliore dove assistere a questo spettacolo offerto dalla natura è senza dubbio Central Park. Il Pierre è proprio lì di fronte. Tra i grandi vecchi hotel di Manhattan è meno famoso del Plaza e meno prestigioso del Carlyle ma a New York, da sempre, è il mio albergo. Ed è per questo motivo che ho chiesto a Taki, come unica condizione dell’intervista, di riservarmi una stanza lì, in omaggio ai vecchi tempi. Che lo spettacolo abbia inizio.
T. Dottor Gianni, di lei molto si racconta ma poco si sa. Nella sua vita si sono sommate molti elementi che raccontano la storia d’Italia degli ultimi 60 anni: il boom economico, l’arrivo della Mafia a Milano, i socialisti, Berlusconi e Tangentopoli. Forse non famosissimo ma molto potente. E soprattutto bene introdotto presso politici, industriali, finanzieri, banchieri. Vuole descriversi da solo?
K. Diciamo che sono un uomo che per un periodo della propria vita prima ha avuto molta fortuna, poi dopo, improvvisamente, molta sfortuna.
T. La sua famiglia è stata per un determinato periodo padrona di mezza Milano, poi cosa accadde?
K. Accadde che gli affari iniziarono ad andare male, come spesso succede, e mio zio, l’ingegner Gerolamo Gianni, che per me è stato come un padre, ha perso tutto. Esattamente come successivamente, diversi anni dopo, è capitato a me. Pensi che morì d’infarto durante un pomeriggio d’estate nella sua villa al mare, in Liguria, mentre giocava a scacchi con mio padre. Non riuscii nemmeno a essere presente al suo funerale, ero in vacanza in Sardegna con mia moglie e decisi di non tornare a Milano. Non ho mai avuto il coraggio di andare a pregare sulla sua tomba al cimitero. Ancora oggi credo di non sapere nemmeno dove sia sepolto. Da lui non ho ereditato nemmeno un cucchiaio, e io ero il suo unico figlio, benché adottivo. Tutto era già andato a scatafascio.
T. È vero che ha origini nobili? In piazza Affari la chiamavano “il conte”.
K. Credo lo facessero per sfottermi. Non ho mai amato quel nomignolo, l’ho sempre considerato roba da avanspettacolo. Ammetto che forse un tempo ci ho persino giocato con questa roba del titolo, ma solo perché mia sorella era sposata con il Conte Serbelloni e anch’io, ironia della sorte, in seconde nozze ho impalmato, come si diceva all’epoca, una contessa, proveniente da un’illustre ed antica famiglia, originaria della Lombardia, i Ceriani Sebregondi. Peccato non avesse più una lira.
T. Ascoltato consigliere di Raul Gardini, era stato al centro dell’affare Enimont. E per quello è finito in galera, accusato di falso in bilancio e di violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti a causa di una colossale mazzetta di 150 miliardi. Ha meravigliato la sua linea processuale. Ha ammesso i fatti contestati ma non ha detto una parola di più, e non ha fatto nomi. Poi dopo un po’ di carcere è scappato all’estero per oltre 20 anni. Perché ha accettato questa intervista. Cos’ha da dire?
K. È la prima volta che decido di aprirmi, perché credo che a 91 anni sia venuto il momento di fare un bilancio definitivo. O ora o mai più. Molti mesi prima della mia cattura, 23 luglio del 1993, sull’onda dell’inchiesta Mani Pulite, sono stato preso di mira da alcuni giornali. Chi non mi ha mai conosciuto ha cominciato a costruirmi addosso alcuni profili immaginari. Sono così passato da oscuro contabile al servizio del Psi a emulo di Cuccia nell’alta finanza anche se in realtà la mia attività principale è sempre stata quella di vendere e comperare film. Ho sempre vissuto il lavoro finanziario come collaterale, una conseguenza la definirei.
T. A distanza di anni si ritiene responsabile per quelle centinaia di risparmiatori che sono stati coinvolti dal suo crac finanziario?
K. L’esperienza del carcere è stata per me fondamentale, ho avuto modo di riflettere a lungo e non c’è stato un minuto in cui non sia stato tormentato dalle azioni che avevo compiuto. A Regina Coeli c’è un lungo corridoio che porta ai raggi e in fondo a una parete è appeso un orologio. È fermo, forse per incuria. Ecco, quell’orologio, a cui penso spesso, è per me esattamente il simbolo del tempo che si è fermato. Dopo nulla è stato più come prima. Riguardo ai risparmiatori invece tengo a precisare che prima di iniziare il mio esilio in Bulgaria ho restituito fino all’ultima lira.
A lei penso per continuare a dare un senso alla mia esistenza. Ed è per dire esattamente questo che ho accettato di fare questa intervista, qui al Pierre. Per poterci tornare ancora una volta. Ancora una volta, nel nostro hotel preferito
T. Più che esilio la definirei una latitanza e i beni le sono stati confiscati più che restituiti. A essere precisi. In ogni modo cosa ha fatto dopo?
K. Mi verrebbe da risponderle che “sono andato a letto presto”, come il personaggio di quel famoso film, che oltretutto è anche l’argomento del libro che sto leggendo e che ho portato con me in questi giorni a New York di Piero Negri Scaglione. E in realtà non sarebbe nemmeno tanto una battuta. Sono uno che, non solo ha bruciato le vele, io ho bruciato proprio la barca a vela intera. Per me “dopo” sarebbe stato impossibile tornare a fare quello che facevo prima.
T. Dove sono finiti i suoi i suoi soldi?
K. Ne ho trattati troppi di soldi, appartenenti ad altri, perché mi possano veramente interessare. Comunque se li ho guadagnati li ho anche spesi. Sono una merce simbolica, almeno per me che li ho trattati come fiche nel gioco. A me è sempre interessato il gioco in sé, non la posta in palio.
T. Quanti segreti cela ancora?
K. Nessuno. Gli uomini e le donne dei miei supposti segreti sono ormai destituiti da ogni potere, non contano più nulla. La maggior parte sono morti. Non mi piace sparare sulla Croce Rossa.
T. Lei si ritiene innocente? Una semplice vittima degli eventi? Davvero è stata solo sfortuna, come ha dichiarato all’inizio di questa intervista?
K. Credo che la vita mi abbia, infine, presentato un conto piuttosto salato. Sono rimasto solo, i miei figli mi detestano, sto diventando cieco. Per concludere però le voglio raccontare una storia. Nel giardino della casa dove abito c’è un grosso albero che, ogni anno, quando perde le foglie, curiosamente butta fuori un minuscolo fiore totalmente fuori stagione. Mi illudo che questo curioso spettacolo della natura sia un segnale per me da parte di Renata, la mia seconda moglie, morta 40 anni fa, in un tragico incidente. A lei penso per continuare a dare un senso alla mia esistenza. Ed è per dire esattamente questo che ho accettato di fare oggi con lei questa intervista, qui al Pierre. Per avere l’occasione di poterci tornare ancora una volta. Ancora una volta, nel nostro hotel preferito.
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