Immobile e sfuggente, sicurezza e delusione, debole ma ancora potente. Mahmoud Abbas, conosciuto ai più come Abu Mazen, è tutto e il contrario di tutto, simbolo di un conflitto con Israele che non è mai andato via. Un conflitto che a volte esplode, per poi rientrare nella “normale” quotidianità, quella che fuori dai Territori Occupati non interessa a nessuno. In questo contesto di guerra perenne c’è praticamente da sempre lui, il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dell’Autorità Nazionale Palestinese, nonché Presidente dello Stato palestinese dal 2005. In teoria, il più alto rappresentante di un popolo spaccato e sofferente da più di 70 anni.
Abu Mazen, il leader invisibile
Peccato si veda solo ogni tanto, quando le tensioni si trasformano in violenza e si iniziano a contare i morti, i feriti e i palazzi rasi al suolo. Parla con i leader mondiali, lancia i soliti appelli e le solite accuse, e poi ripiomba nel suo nulla. Dove va, Abu Mazen, nei lunghi periodi dell’anno in cui il mondo si scorda della Palestina? Cosa fa quando nascono nuove colonie israeliane nei Territori Occupati e il suo popolo subisce sfratti e violenze? Perché non è in trattativa costante con i rappresentanti israeliani, non tanto per raggiungere la pace, quanto per trovare soluzioni ai problemi più comuni della gente che rappresenta? Perché Netanyahu è sempre in tv e lui non si vede mai?
Abu Mazen, erede senza carisma di Arafat
Dalla morte di Yasser Arafat, nel 2004, Abu Mazen ne ha preso il ruolo, ma dell’ex “rais” non ha nulla. Né il carisma, né la presenza scenica, e nemmeno quelle capacità diplomatiche che, al netto di un profilo complesso e controverso, gli valsero il Nobel per la pace nel 1994, con Shimon Peres e Yitzhak Rabin. Abu Mazen lo ha seguito in tutte le esperienze, dall’ingresso nell’organizzazione al-Fatah alla dirigenza di Olp e Anp. Resta, però, difficile considerarlo il suo erede. Negli ultimi anni, d’altronde, gli scontri fra i due furono tanti e, ancora adesso, non è particolarmente stimato dalla famiglia di Arafat. A marzo, quando sembrava che i palestinesi fossero pronti per tornare a votare dopo 15 anni, la vedova di Arafat disse queste, esatte parole: «Mahmoud Abbas dirige l’Autorità Palestinese da 16 anni con pugno di ferro, abusi, portando a imprigionare liberi pensatori, giornalisti, artisti e politici di primo piano. Penso che abbia perso il controllo della situazione politica nella Palestina occupata». Piccolo spoiler: le elezioni sono state annullate, Abu Mazen è ancora lì.

Hamas sostituto di Abu Mazen
Da tempo, l’unica controparte per Israele è rappresentata da Hamas, ed è così praticamente per tutti. È al gruppo armato che Netanyahu si rivolge quando minaccia (e mette in moto) azioni militari. È di Hamas che parlano i telegiornali quando riportano del lancio reciproco di razzi. È Hamas che risponde alle violenze della polizia e dei nazionalisti israeliani sui musulmani. La parola “Palestina” è ormai presente sempre di meno, anche perché chi la dovrebbe rappresentare è totalmente assente. Di fatto, domina la retorica del conflitto tra «Israele e i terroristi», perché, purtroppo, solamente Hamas si arroga il diritto di «agire in nome del popolo». Non si vuole giustificare in alcun modo il lancio di razzi dalla striscia di Gaza, né le centinaia di morti civili, semplicemente sottolineare che le debolezze e le divisioni della politica palestinese hanno lasciato campo libero ad Hamas. Nato sfruttando queste divisioni già nel 1987, il gruppo si è preso il ruolo di primo “interlocutore” di Israele.
La lunga militanza politica di Abu Mazen
Nato nel 1935, Mahmoud Abbas ha una lunghissima militanza politica alle spalle. Il nome con cui è più conosciuto lo deve al primo figlio, Mazen, morto di infarto a 42 anni (Abu Mazen significa “padre di Mazen”). È stato tra i fondatori di al-Fatah, poco più che trentenne è entrato nel Consiglio Nazionale Palestinese ed è poi diventato un membro dell’Olp. La sua ascesa inizia nel 2003, quando Arafat viene “costretto” a nominare Abbas primo ministro dell’Anp sotto le pressioni internazionali. Prima, aveva svolto lavori di negoziazione molto importanti, ma l’ingombrante personalità di Arafat gli aveva sempre rubato la scena. Negli Stati Uniti post 11 settembre, però, per il “rais” non c’è più posto, e l’interlocutore principale diventa, per i palestinesi, proprio Abu Mazen. Da questo momento i rapporti tra i due si logorano, e tesi rimarranno fino alla fine. Per capire quanto Arafat fosse importante per l’altro, tuttavia, basta dire che il suo secondogenito si chiama proprio Yasser.

Nel gennaio 2005, pochi mesi dopo la morte del suo mentore, Abu Mazen vince le elezioni presidenziali palestinesi. Il successo coinciderà con l’inizio dei problemi. nel 2006 Hamas batte al-Fatah alle legislative e forma un governo particolarmente osteggiato da Israele e all’Occidente, con Ismail Hanyeh primo ministro. Ne deriveranno tensioni tra Hamas e al-Fatah che sfociano, a dicembre, in un violentissimo conflitto armato interno ai territori palestinesi. Appena sei mesi più tardi, Hamas mette sotto il suo controllo la Striscia di Gaza, mentre al-Fatah è in maggioranza in Cisgiordania: Abbas, allora, scioglie il governo di Hanyeh e nomina Salam Fayyad come primo ministro. Il clima di tensione si protrae a lungo. Nel 2009, complici le rituali campagne militari di Israele, il mandato di Abu Mazen viene prorogato a tempo indeterminato, mentre nel 2014 arriva una “pace” tra Hamas e al-Fatah, in base alla quale vengono fissate delle nuove elezioni per lo stesso anno. Non ci saranno mai.
Elezioni mai indette
E siamo all’attualità. A maggio le consultazioni si sarebbero dovute tenere dopo 15 anni, e invece ancora niente. E c’entrano poco gli scontri di questi giorni, perché erano state cancellate ben prima delle tensioni nella Spianata delle Moschee. Abu Mazen si è difeso parlando della mancata concessione, da parte di Israele, del permesso di svolgere le elezioni a Gerusalemme est. «Votare senza Gerusalemme sarebbe un crimine», ha detto il vice di Abbas, Mahmoud Aloul.
La verità, però, è che al-Fatah non ha nemmeno provato a far sì che le cose potessero cambiare. Lo scenario politico palestinese, se possibile, è ancora più frammentato di prima: da una parte Hamas, dall’altra al-Fatah, divisa però in tre fazioni diverse. Se si fosse votato, la classe dirigente di Abu Mazen ne sarebbe uscita sconfitta, e perché il Presidente dovrebbe voler perdere il potere? Meglio rinviare e mantenere le cose così come stanno, circostanza che, tra l’altro, fa molto comodo anche a Israele. E poco importa che i palestinesi vogliano votare, esprimersi, cambiare. La classe dirigente ha interessi che non coincidono con quelli della sua gente.